Recensioni: Donato de Filippis, cucina gourmet a Tenuta Esdra


Lo chef Donato de Filippis e il sommelier Federico Massimi sono una accoppiata vincente: giovanissimi, preparati, curiosi, estremamente cortesi, pronti a sperimentare e a guidare il cliente, ma anche a incassare una critica con il sorriso. Gestiscono il ristorante della Tenuta Esdra di Pontecorvo, con piglio sicuro e garbato e hanno mille progetti in mente, tra cui un nome che identifichi il ristorante e un menu degustazione da sette portate (al costo di 60 euro) che è già in gestazione. Lo chef, 28 anni, è nato e cresciuto in Puglia, a Bari, ma si è trasferito a Frosinone da tempo e, quindi, si considera ormai ‘naturalizzato’ laziale. Mentre il sommelier, Federico, ha il Lazio nel sangue. L’essersi trasferito non ha però fatto dimenticare a Donato le sue origini, e quindi ecco che dettagli pugliesi fanno capolino nei diversi piatti del menu, illuminando la tradizione del luogo con tocchi estremamente mediterranei. Prima l’alberghiero a Fiuggi, poi una serie di esperienze in ristoranti di hotel di alto livello a Folgaria, Capri, Porto Cervo e Roma (hotel Eden) e ancora una esperienza internazionale a Londra, hanno plasmato felicemente la cucina di Donato de Filippis: essenziale, netta, curata, attenta agli abbinamenti di colori e di consistenze, con una tecnica solida, ma mai esibita o fine a se stessa. Pochi gli ingredienti sul piatto, segno di semplicità e ricercatezza.

La Tenuta Esdra è nata dall’idea della giovanissima Erika Votta che ha deciso di investire sul territorio creando una Agri spa con piscina, camere, orto biologico che rifornisce il ristorante. Un bel camino in pietra serena è il fulcro di un arredamento semplice e moderno: tovaglie bianche, calici e bicchieri trasparenti, due nicchie che ospitano le bottiglie di vino e il tocco di colore delle tende rosse. La cucina è al piano inferiore, molto grande, dotata di apparecchiature di ultimo modello, con una bella apertura sul cortile. Il menu è essenziale e sintetico, il pane è fatto in casa con lievito madre (buono e particolare quello alla curcuma), le verdure sono dell’orto, i fornitori della maggior parte dei prodotti sono locali perché l’idea è quella di fare una cucina del territorio il più possibile a chilometro zero. In carta tre antipasti, tre primi piatti, tre secondi piatti, qualche verdura e dolci secondo l’estro dello chef, che cura anche la pasticceria. Le proposte sono sia di carne sia di pesce. Il mio percorso comincia con carciofi, asparagi, limone candito e uovo cotto a 62 gradi (10 euro): sapete che ho una predilezione per i piatti a base di uova. Questo ha centrato bene l’obiettivo della leggerezza e della freschezza, come dovrebbe essere per qualunque antipasto: carciofi e asparagi sbianchiti per un secondo appena e serviti croccanti, con un goccio di olio extravergine di qualità e la nota piacevolmente agra del limone candito accanto alla morbida grassezza del tuorlo d’uovo. Pochissimo sale e abbondante pepe nero.

Proseguiamo con un omaggio alla tradizione del Lazio: coda di vitello, crema di topinambur, sedano e salsa diavola (9 euro). Un piatto servito freddo, con la coda sfilacciata e pressata come fosse una terrina, accompagnata da una crema di topinambur dal leggero retrogusto affumicato tipico di questo vegetale. Ottimo l’abbinamento con la salsa, piccantissima, ma servita giustamente in dosi minime. Non fine a se stesso neanche l’uso del sedano, dal sapore particolarmente intenso, perfetto per pulire la bocca dal grasso della coda e dal piccante della salsa. Nel complesso, anche in questo caso un antipasto leggero e fresco. In carta anche baccalà, patate e tartufo a 11 euro.

I ravioli di baccalà mantecato, asparagi di mare e rapa rossa (14 euro) sono stati forse il piatto che ho preferito, non solo per la realizzazione ma soprattutto per gli abbinamenti. Anche qui l’uso del baccalà richiama il Lazio: la pasta all’uovo tirata non troppo sottile (come va invece di moda oggi, a volte fin troppo), cotta estremamente al dente. La farcia semplicissima con un netto sapore di baccalà, dalla consistenza sostenuta. I ravioli sono stati spadellati in una emulsione di burro agli asparagi di mare e serviti con la stessa salicornia, un ristretto di rape rosse e rape rosse crude. Ottimo l’abbinamento tra il baccalà, minerale e leggermente grasso, e il lieve sentore terrigno delle rape. La salicornia è risultata solo un po’ troppo scarica di sapidità, ma molto piacevole la sua consistenza croccante.

Poi, un felice incontro tra Puglia e Lazio, tra due culture contadine: i tagliolini di grano arso con cacio, pepe e tartufo nero (14 euro). Anche qui ottima la pasta, spessa, corposa, che non cede minimamente alla moda della sfoglia sottile, cotta estremamente al dente: ben dosata la percentuale di grano arso, dal caratteristico gusto deciso e affumicato. Ho apprezzato il condimento fatto di cacio e pepe nero che non pecca in eccesso di sale, come spesso accade, e il gusto leggerissimo del tartufo nero. Un piatto ben equilibrato e ricco di gusto. In carta, anche un risotto con noci, crema di pere e parmigiano (12 euro).

Molto semplice il secondo di pesce: un trancio di merluzzo alla griglia (15 euro) con spuma di piselli e finger lime (il caviale di limone di origine australiana ormai di casa nelle cucine dei grandi chef): anche in questo caso, con pochi selezionati ingredienti, il gusto è risultato equilibrato tra l’acido e il dolce. Un piatto essenziale, come tutti quelli che ho assaggiato, dove de Filippis dimostra un minimalismo culinario che già racconta una cucina evoluta, dove si è già capito che è più importante talvolta togliere piuttosto che aggiungere.

Pochi ingredienti e ben armonizzati anche per il secondo piatto di carne: quaglia alla brace con cavolfiore al burro e ristretto di liquirizia (16 euro). Perfetta la cottura al sangue della quaglia, croccante il cavolfiore, ma poco presente il sentore della liquirizia. Ho apprezzato, forse perché la liquirizia è uno dei pochi ingredienti che non amo, anche se forse qualche appassionato avrebbe preferito sentire di più la spezia. In carta, anche un maialino al vino Cabernet di Atina (una Doc regionale) con crema di patate e rosmarino (18 euro).


Sulla pasticceria c’è ancora un po’ di lavoro da fare, ma credo che lo chef lo sappia perfettamente: la sfera di cioccolato fondente, con mousse al burro di arachidi e lamponi (7 euro), è comunque un ottimo punto di partenza. La sfera un po’ troppo spessa, ma si è comunque sciolta al cadere della salsa al lampone calda, piacevolmente acidula, come piacevole è stato l’abbinamento con il burro di arachidi e la sua nota salata.

Spunti interessanti anche nei piccoli assaggi di dolci, a partire dalle originali sfogliatine di patate dolci con mousse di arachidi e tartufo nero e dal cioccolato di altissima qualità servito con sale Maldon. Classiche le piccole rose del deserto in cioccolato bianco e cereali. Ho trovato meno felici i mini muffin e i dolcetti al cocco, più adatti a una colazione, ma io sono una perfezionista.

Per quanto riguarda le bevande, c’è da fidarsi dei consigli di Federico Massimi. Con i piatti di de Filippis, Federico ha costruito una carta essenziale, con qualche buona bollicina, una accurata e oculata scelta di etichette del Lazio. Una carta vini in cui, però, meriterebbero un posto anche denominazioni importanti come, ad esempio, Primitivo di Manduria, Vermentino di Gallura, Gavi, Nero d’Avola. Un aspetto da rivedere, a nostro avviso, ma nel segno di un ampliamento della gamma offerta ai clienti. I ricarichi sono nella norma.

Un ristorante che vi consiglio assolutamente di provare.

(visitato nel febbraio 2017)

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