Stralci n.16
“La porta si apri.
“Zione, sei una bellezza stasera. La marsina ti sta alla perfezione. Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?”
Tancredi era a braccio di Angelica: tutti e due erano ancora sotto l’influsso sensuale del ballo, stanchi.
Angelica sedette, chiese a Tancredi un fazzoletto per asciugarsi le tempie; fu Don Fabrizio a darle il suo. I due giovani guardavano il quadro con noncuranza assoluta. Per entrambi la conoscenza della morte era puramente intellettuale, era per così dire un dato di coltura e basta, non un’esperienza che avesse loro forato il midollo delle ossa. La morte, si, esisteva, senza dubbio, ma era roba ad uso degli altri; Don Fabrizio pensava che è per la ignoranza intima di questa suprema consolazione che i giovani sentono i dolori più acerbamente dei vecchi: per questi l’uscita di sicurezza è più vicina.
“Principe” diceva Angelica “abbiamo saputo che Lei era qui; siamo venuti per riposarci ma anche per chiederle qualche cosa; spero che non me la rifiuterà.”
I suoi occhi ridevano di malizia, la sua mano si posava sulla manica di Don Fabrizio. Volevo chiederle di ballare con me la prossima ‘mazurka.’ Dica di si, non faccia il cattivo: si sa che Lei era un gran ballerino.”
Il Principe fu contentissimo, si sentiva tutto ringalluzzito. Altro che cripta dei Cappuccini! Le sue guance pelose si agitavano per il piacere. L’idea della “mazurka”‘ però lo spaventava un poco: questo ballo militare, tutto battute di piedi e giravolte non era più roba per le sue giunture. Inginocchiarsi davanti ad Angelica sarebbe stato un piacere, ma se dopo avesse fatto fatica a rialzarsi?
“Grazie, Angelica, mi ringiovanisci. Sarò felice di ubbidirti, ma la ‘mazurka’ no, concedimi il primo valzer.”
“Lo vedi, Tancredi, com’è buono lo zio? Non fa i capricci come tè. Sa, Principe, lui non voleva che glielo chiedessi: ègeloso.”
Tancredi rideva: “Quando si ha uno zio bello ed elegante come lui ègiusto esser gelosi. Ma, insomma, per questa volta non mi oppongo.”
Sorridevano tutti e tre, e Don Fabrizio non capiva se avessero complottato questa proposta per fargli piacere o per prenderlo in giro. Non aveva importanza: erano cari lo stesso.
Al momento di uscire Angelica sfiorò con la mano la tapezzeria di una poltrona. “Sono carine queste; un bel colore; ma quelle di casa sua, Principe…” La nave procedeva nell’abbrivo ricevuto.
Tancredi intervenne: “Basta, Angelica. Noi due ti vogliamo bene anche al di fuori delle tue conoscenze in fatto di mobilio. Lascia stare le sedie e vieni a ballare.”
Mentre andava al salone da ballo Don Fabrizio vide che Sedàra parlava ancora con Giovanni Finale. Si udivano le parole “russella,” “primintìo,” “marzolino”: paragonavano i pregi dei grani da semina. Il Principe previde imminente un invito a Margarossa, il podere per il quale Finale si stava rovinando a forza di innovazioni agricole.
La coppia Angelica-Don Fabrizio fece una magnifica figura. Gli enormi piedi del Principe si muovevano con delicatezza sorprendente e mai le scarpette di raso della sua dama furono in pericolo di esser sfiorate; la zampaccia di lui le stringeva la vita con vigorosa fermezza, il mento poggiava sull’onda letèa dei capelli di lei; dalla scollatura di Angelica saliva un profumo di bouquet a la Maréchale, soprattutto un aroma di pelle giovane e liscia. Alla memoria di lui risalì una frase di Tumèo: “Le sue lenzuola debbono avere l’odore del paradiso.” Frase sconveniente, frase villana; esatta però. Quel Tancredi…
Lei parlava. La sua naturale vanità era soddisfatta quanto la sua tenace ambizione. “Sono cosìfelice, zione. Tutti sono stati tanto gentili, tanto buoni. Tancredi, poi, èun amore; e anche Lei è un amore. Tutto questo lo devo a Lei, zione, anche Tancredi. Perché se Lei non avesse voluto si sa come sarebbe andato a finire.” “Io non c’entro, figlia mia; tutto lo devi a tèsola.” Era vero: nessun Tancredi avrebbe mai resistito alla sua bellezza unita al suo patrimonio.
La avrebbe sposata calpestando tutto. Una fitta gli traversòil cuore: pensava agli occhi alteri e sconfìtti di Concetta. Ma fu un dolore breve: ad ogni giro un anno gli cadeva giù dalle spalle; presto si ritrovòcome a venti anni quando in questa sala stessa ballava con Stella, quando ignorava ancora cosa fossero le delusioni, il tedio, il resto. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi, “roba per gli altri.”
Tanto assorto era nei suoi ricordi che combaciavano così bene con la sensazione presente che non si accorse che ad un certo punto Angelica e lui ballavano soli. Forse istigate da Tancredi le altre coppie avevano smesso e stavano a guardare; anche i due Ponteleone erano li: sembravano inteneriti, erano anziani e forse comprendevano. Stella pure era anziana, però, ma da sotto una porta i suoi occhi erano foschi.
Quando l’orchestrina tacque un applauso non scoppiò soltanto perchéDon Fabrizio aveva l’aspetto troppo leonino perché si arrischiassero simili sconvenienze.
Finito il valzer, Angelica propose a Don Fabrizio di cenare alla tavola sua e di Tancredi; lui ne sarebbe stato molto contento ma proprio in quel momento i ricordi della sua gioventù erano troppo vivaci perchénon si rendesse conto di quanto una cena con un vecchio zio gli sarebbe riuscita ostica, allora, mentre Stella era li a due passi. “Soli vogliono stare gli innamorati o magari con estranei; con anziani e, peggio che peggio, con parenti, mai.”
“Grazie, Angelica, non ho appetito. Prenderò qualcosa all’impiedi. Vai con Tancredi, non pensate a me.”
Aspettòun momento che i ragazzi si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet. Una lunghissima stretta tavola stava nel fondo, illuminata dai famosi dodici candelabri di vermeil che il nonno di Diego aveva ricevuto in dono dalla Corte di Spagna al termine della sua ambasciata a Madrid: ritte sugli alti piedestalli di metallo rilucente, sei figure di atleti e sei di donne, alternate, reggevano al disopra delle loro teste il fusto d’argento dorato, coronato in cima dalle fiammelle di dodici candele: la perizia dell’orefice aveva maliziosamente espresso la facilitàserena degli uomini, la fatica aggraziata delle giovinette nel reggere lo spropositato peso.
Dodici pezzi di prim’ordine.
“Chissàa quante ‘salme’ di terra equivarranno” avrebbe detto l’infelice Sedàra. Don Fabrizio ricordòcome Diego gli avesse un giorno mostrato gli astucci di ognuno di quei candelabri, montagnole di marocchino verde recanti impresso sui fianchi l’oro dello scudo tripartito dei Ponteleone e quello delle cifre intrecciate dei donatori.
Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi di “dolci di riposto” mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables a thè dei grandi balli: coralline le
aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, le beccacce disossate recline su tumuli di crostoni ambrati decorati delle loro stesse viscere triturate, i pasticci di fegato grasso rosei sotto la corazza di gelatina; le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli colorate delizie; all’estremità della tavola due monumentali zuppiere d’argento contenevano il consommé, ambra bruciata e limpido. I cuochi delle vaste cucine avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena.
“Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stomaci del mio per tutto questo.
Disprezzòla tavola delle bibite che stava sulla destra luccicante di cristalli ed argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Li immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianco nevosi di panna; beignets Dauphine che le
mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e “trionfi della Gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “paste delle Vergini.” Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi.
“Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I ‘trionfi della Gola’ (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah! “
Nella sala odorosa di vaniglia, di vino, di cipria, Don Fabrizio si aggirava alla ricerca di un posto.
Da un tavolo Tancredi lo vide, batté la mano su una sedia per mostrargli che vi era da sedersi; accanto a lui Angelica cercava di vedere nel rovescio di un piatto d’argento se la pettinatura era a posto. Don Fabrizio scosse la testa sorridendo per rifiutare. Continuò a cercare. Da un tavolo si udiva la voce soddisfatta di Pallavicino: “La più alta emozione della mia vita…”
Vicino a lui vi era un posto vuoto.
Ma che gran seccatore! Non era meglio dopo tutto ascoltare la cordialitàforse voluta ma rinfrescante di Angelica, lale pidezza asciutta di Tancredi? No; meglio annoiarsi che annoiare gli altri. Chiese scusa, sedette vicino al colonnello che si alzò al suo giungere il che gli riconciliòun poco delle simpatie gattopardesche.
Mentre degustava la raffinata mescolanza di bianco mangiare, pistacchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva scelti, Don Fabrizio conversava con Pallavicino e si accorgeva che questi, al di là delle frasi zuccherose riservate forse alle signore, era tutt’altro che un imbecille; era un “signore” anche lui e il fondamentale scetticismo della sua classe, soffocato abitualmente dalle impetuose fiamme bersaglieresche del bavero, taceva di nuovo capolino adesso che si trovava in un ambiente eguale a quello suo natìo, fuori dell’inevitabile retorica delle caserme e delle ammiratrici. ” In: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1958