L’avocado del diavolo

Con questo caldo (e con una tesi di dottorato da scrivere) la voglia di cucinare viene un po’ meno. Per questo, ho pensato di dare alcune indicazioni su un ingrediente che ormai si trova in tutti i supermercati, ma che è poco conosciuto e poco apprezzato, ottimo per mettere insieme un pranzo velocissimo ed estivo, come vedrete sotto.

Sono due, credo, i motivi della poca fortuna dell’avocado: il primo è che molta gente pensa –sbagliando– che si tratti di un frutto, nel senso gastronomico del termine, mentre è invece una verdura. Il secondo è che di solito si trova in vendita molto immaturo ed ancora sostanzialmente immangiabile, così chi lo assaggia per la prima volta senza sapere che cosa aspettarsi ne resta puntualmente deluso.

La pianta, poi, ha un sacco di storie interessanti da raccontare, che i curiosi troveranno sotto alla ricetta.

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  • Un grosso avocado maturo
  • Due–quattro fette di pane
  • Peperoncino in polvere o in fiocchi, oppure paprika
  • Succo di limone o limetta, a piacimento
  • Olio di oliva extravergine ottimo
  • Sale

Questa ricetta, se così si può chiamare, basta per due persone che non hanno molta fame.

Tostate leggermente il pane in forno o in padella.

Con un coltello, incidete l’avocado nel senso della lunghezza, arrivando fino al grosso seme centrale. Ruotate le due metà con le mani e separatele in modo che il seme resti attaccato su una delle due. Per toglierlo, colpitelo con il coltello in modo che si pianti per qualche millimetro, poi ruotate. Con il coltello incidete la polpa fino alla buccia in modo da formare delle fette spesse circa un centimetro. Spingendo col manico di un cucchiaio o con le dita, fatele sgusciar fuori. Se non avete la pazienza di fare questa operazione, scavate semplicemente la polpa con un cucchiaio.

Disponete le fette di avocado in bell’ordine sopra il pane, spruzzate col succo di limone, salate abbondantemente, condite col peperoncino e abbondante olio. Mangiate subito, altrimenti l’avocado annerirà.

Se avete in casa dei semi di nigella, sono strepitosi in questo piatto. Buoni, ma non altrettanto, sono anche il sesamo e i semi di papavero.

 


Un avocado maturo ha la polpa tenera come quella di un melone, ma per niente sugosa. Il frutto ha la curiosa proprietà di non maturare fino a che non è staccato dall’albero, dal quale viene raccolto e venduto necessariamente non ancora pronto al consumo. Alcune varietà commerciali sono state selezionate appositamente per trattenere i frutti sul ramo per parecchi mesi; li si possono quindi trovare freschissimi per quasi tutto l’anno. Dalla raccolta alla maturazione passano circa un paio di settimane, perciò quando prendete un avocado, lo dovreste conservare fino a che non si può sentire chiaramente, palpandolo, che s’è ammorbidito. A seconda di quanto è stato esposto in negozio, ci possono volere anche molti giorni; il cambiamento è velocissimo e imprevedibile, e ad esso segue a ruota una rapida marcescenza. Da immaturo è duro, amidaceo e di sapore tenue e sgradevole. La capacità di maturare spontaneamente una volta staccato dalla pianta madre non è comune a tutti i frutti carnosi, ma solo ai cosiddetti frutti climaterici. Questi maturano in seguito ad un irreversibile cambiamento fisiologico che non dipende direttamente dall’ambiente, ma si attiva guidato da un interruttore interno. In questa categoria troviamo ad esempio le banane, il melone, le pesche, mentre gli agrumi, l’uva, le fragole sono frutti tipicamente non climaterici.

L’albero dell’avocado (Persea americana) appartiene della stessa famiglia dell’alloro, un gruppo di piante piuttosto primitive. È originario di una regione tropicale abbastanza ristretta del sud del Messico, che ne è di gran lunga il più grande produttore e consumatore al mondo. Anche il nome ha origine in quel Paese: deriva, forse influenzato da un’etimologia popolare che lo associa ad “avvocato”, dallo spagnolo aguacate, che a sua volta è una storpiatura di āhuacatl, una parola nahuatl che significa… (rullino i tamburi)… avocado! Il termine è parente di quello per “testicoli”, per via della forma. Sempre dal nahuatl, la lingua degli aztechi e di un milione e mezzo di messicani ora viventi, derivano le parole “cioccolata”, “cacao”, e “tomate”, il nome del pomodoro in spagnolo e molte altre lingue europee. Anche se quello dell’alloro è molto più piccolo, il frutto dei due alberi è parecchio simile: si tratta di una bacca con un solo grosso seme al centro ed una polpa oleosa. Ai botanici della domenica che potrebbero chiamare una simile struttura “drupa”, ricordo che questa ha per definizione un nocciolo legnoso, che manca in questo caso. Altre caratteristiche che accomunano l’alloro e l’avocado sono le foglie scure, coriacee e sempreverdi, oltre naturalmente alla struttura del fiore. L’olio denso ricavato dai semi dell’alloro è stato usato per secoli per produrre un sapone profumato, mentre quello dell’avocado si può usare in cucina e nella preparazione di cosmetici. È composto principalmente di acido oleico, come quello di oliva, col quale condivide le proprietà salutari. L’alto contenuto di grassi fa anche sì che l’avocado sia di gran lunga la più calorica tra le verdure di uso comune: ben 160 kcal per 100 grammi (contro 116 delle patate, 80 dei piselli, 7 del sedano).

Spesso si trovano venduti assieme avocado di diverse varietà. Alcuni sono a forma di pera, con la buccia verde e rugosa, altri sono tondi e con la scorza liscia, altri ancora sono color melanzana, ma sono tutti molto simili quanto a sapore e cosistenza. Uno dei motivi di questa promiscuità è il fatto che, nonostante la pianta possa teoricamente autoimpollinarsi, questo è reso difficile dal fatto che le parti femminili e quelle maschili del fiore non maturano contemporaneamente, un fenomeno detto dai botanici “dicogamìa” e dagli zoologi “ermafroditismo successivo”. Alcune piante selvatiche di avocado (e alcune varietà coltivate) sono proteràndre, ossia producono il polline molto prima che la parte femminile sia ricettiva, mentre altre sono proterogìne, ossia vivono la condizione opposta. Per questa ragione, per aumentare la resa, si coltivano spesso assieme due varietà opposte a questo riguardo.

Uno scheletro completo di Megatherium americanum al Museo di Storia Naturale di Parigi. Il suo più stretto parente ancora vivente è il bradipo.

Qualcuno con un un po’ d’occhio per la storia naturale si potrebbe chiedere quale creatura potrebbe mai disseminare una pianta con un frutto e un seme così grossi. La curiosa risposta è: qualunque fosse, è estinto. L’avocado è tra quelli che si chiamano nel gergo “anacronismi neotropicali”. Uno o due milioni di anni fa, durante il pleistocene, animali della misura di un rinoceronte o un ippopotamo, tra i quali è particolarmente famoso il megaterio, si potevano trovare su tutto il continente americano ed è per loro che l’albero dell’avocado ha evoluto un frutto di quelle dimensioni. Queste bestiacce potevano certamente inghiottirlo intero e disperdere i semi a distanza con i loro escrementi, come ai nostri climi una cornacchia può disperdere un seme di ciliegia e un passero i semini del mirtillo. Purtroppo per l’avocado, che è scomparso per questa ragione da quasi tutto il suo areale originale di diffusione (dal Perù al sud degli Stati Uniti), dopo la fine dell’ultima glaciazione di quella fauna preistorica non rimangono che gli impressionanti ossi che si possono ammirare nei musei di tutto il mondo. A complicare ulteriormente le cose, c’è il fatto il frutto contiene persina, una sostanza che lo rende molto velenoso per gli uccelli e tossico per la maggior parte dei mammiferi, uomo ovviamente escluso.

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