Al Ristorante con Carlo Emilio Gadda

Carlo Emilio Gadda, l’ingegnere della lingua italiana, ha stravolto con la sua originalità sempre pungente la narrativa italiana (e non solo dell’Italia) del Novecento utilizzando il suo personalissimo stile di scrittura mescolando linguaggi diversi, tra dialetti e neologismi creati da lui stesso fondendoli con umorismo e tanta satira.

E così, sul mio portale di Enogastronomia, nella cartegoria STORIE NELLA STORIA scrivo ancora una volta di Gadda e del suo personale modo di osservare il mondo all’interno di un ristorante. Quando lessi qualche anno fa il testo che seguirà a breve in quest’articolo restai profondamente colpito da quanto le parole di Gadda si trasformino in immagini visive forti e da quanto tutto sia così profondamente attuale. Uno come me, che vive il cibo tra passione e sacrificio che ha lavorato tra tantissime aziende ristorative resta davvero folgorato dalla frase “La tavola un campo di battaglia, l’elegante campo di una intelligente battaglia“.

 

La rubrica RAI “Buona convivenza”

Carlo Emilio Gadda a 57 anni, con qualche difficoltà economica, accetta un contratto semestrale rinnovabile come praticante giornalista al giornale radio dell’attuale RAI Radio 3. Il testo che segue andò in onda il 2 ottobre 1955.

 

 

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Al ristorante di Carlo Emilio Gadda

Camerieri inguantati sono a scodinzolare tutt’attorno gli schienali delle seggiole, o si inscrivono tra i neri signori e i decolletés delle dame color pervinca; si curvano sulla tavola presentando la portata, e accuratamente servendo. Ma i due professori non c’è probabilità che la smettano di polemizzare, di sofisticare, il controbattere l’uno la opinione dell’ altro: fra la noia di tutti. L’uno sostiene che si deve mangiare tacendo, l’altro che si deve parlare mangiando: “a bocca piena?” “no, sì, già, a bocca vuota”: “ma allora lei non mangia più… e semina il disordine e la confusione tra l’andirivieni del servizio…”. L’uno dà la palma al silenzio, al diligente lavoro dei molari, alla tacita deglutizione dei gnocchi adeguatamente lubrificati in butirro, alla muta eccitazione delle ghiandole insalivatrici. Tutti i commensali, secondo lui, dovrebbero far propria la pertinace disciplina dei ruminanti, del bove: masticare zitti zitti, con occhioni estromessi ma cervello introvertito: quegli occhioni che non dicon nulla, ma esprimono la preoccupazione d’aver mandato giù il non salubre ossicino o la insaluberrima resca. “Attenti alla resca!” è il suo motto. L’ altro vorrebbe che “gli spiriti” degli attavolati, il fascino e il brio delle stupende signore, incrociassero le rispettive armi, impegnassero un unico gioco, accendessero la gran fiamma della cordialità conviviale.
La tavola, e la zona dei volti, tutto uno scoppiettare di motti, di lampeggiamenti fascinatori. La tavola un campo di battaglia, l’elegante campo di una intelligente battaglia: uno schermagliare di sottili intelletti, un’accòlita di rari pezzi grossi, una tornata accademica di lingue nobilmente favellanti. L’assaporante lingua, per lui, è una linguaccia: un organo bestiale che, usato per il cibo anziché per la favola, ci degrada alla condizione delle bestie. La lingua motteggiante, guizzante, è invece la fiamma che ci riporta verso la sfera del fuoco, verso la mobile sfera del nostro ardore: cioè del nostro ardire, del nostro intendere, del puro nostro vivere: “I gnocchi! le polpette! Che volgarità! Il cibo secondo lo spirito deve disporre al meglio, col suo profumo un tantino platonico, la parte migliore del nostro essere, cioè la sola che sia degna di venir considerata: deve ottenere partita vinta, comunque, contro il cibo che seduce la carne, ossia la lingua, il palato e lo stomaco. A Platone la palma sulle scaloppine!
Allo spirito è consentita la nobile voracità dell’apprendere, alla gola è inibita la voracità turpe del deglutire”. Per poco i due teologi non si accapigliano: uno è talmente calvo che non sarebbe fair play, non sarebbe gioco leale da parte sua il prendere l’avversario per i capelli. Entrambi si astengono dal grattarsi la calva palla del cranio (l’epicuréo) o il carbonioso e cresputo capillizio (il platonico): e di ciò li lodo: ché il grattarsi la testa a tavola, svincolando squame di forfora nell’ altrui minestra o pietanza, è pratica inelegante, nell’Ottocento, anzi, si diceva schifosa. La signora Dirce, biondissima fascinatrice di cuori tra le cannonate della polemica e le conseguenti more del servizio che va rotolando verso le classiche forme del disservizio, ha estratto il piumino dal marsupio della trousse e si studia di dealbare il nasetto, resosi un tantino più rubizzo, forse, di quanto sarebbe desiderabile, e da lei e da noi. All’udire il tuono delle severe opinioni maritali – (poiché il polemista platonizzante è suo marito) – all’udirle prolungarsi al di là d’ogni pazienza e speranza degli attavolati rimminchioniti, ella profitta per far seguire alla raggiunta e perfezionata imbiancatura dell’organo del fiuto alcuni maestri colpi di péttine inferti in parrucca.
Dalle sue chiome d’oro si libera per tal modo un pulviscolo d’oro che un impreveduto riscontro, detto volgarmente spiffero, conduce a indorare le fragole del vicino, con la delicatezza silente con cui il flauto, detto volgarmente piffero, di Ermes guidatore di greggi, conduce le più delicate anime a depositarsi ai campi elisi. Il vicino è un terzo professore: è provveduto di lenti: ma “soffre di denti”. Lo zabaglione gelato che rinserra le fragole gli si sdilinquisce nel mal di denti, mentre la pioggia d’oro le investe. Il professore non avverte il fenomeno: ha preso le parti del microcosmo contro quelle del macrocosmo sostenute da un commentatore di Goethe che gli siede quasi dirimpetto.
Feroce sostenitore del “culto della donna, che è la fiamma di ogni ideale, il modulo di ogni più sana prassi nella vita dello spirito” – (intende dello spirito maschile, certo) – non ha avvertito il piumino, non ha avvertito il pettine, non ha avvertito il pulviscolo, non ha avvertito i capelli d’oro, non ha avvertito la biondissima Dirce (quasi Circe) che gli siede a lato. Spara sulla prassi come un cacciatore con gli occhiali d’oro su di una gallina scambiata per fagiano. La signora Dirce, bionda vincitrice di ogni cuore, s’è rassegnata ad avere per vicino di tavola un professore di pedagogia infatuato, hélas! del “culto della donna”. Alla bisteccuzza gli aveva chiesto il sale: e lui, senza far motto, glie lo aveva subito passato. Ma era il portastecchi. Dall’altra parte, voglio dire dall’altro lato della signora, c’è un critico. Non si capisce che cosa critichi, perché dice “io sono un sincretista”: parla con la bocca piena e dà quindi ragione a entrambi i due tonanti avversari del parlare e del mangiare; da vero ed autentico sincretinista quale si professa. Continua a fabulare di “trasposizione” e di “trasfigurazione in termini poetici”, perché la sua, a sentirlo, è una critica “puntuale”, il che significa una cicalata che dà il cerchio alla testa a tutte le bionde o nere testoline tristemente ammutolite nei dintorni, coi poveri occhi (per solito così splendidi!) chini e compunti sulla pietanzuzza. Il sincretino va nervosamente spilluzzicando un chicco sì un chicco no da due grappoloni dorati che stringono un gigantesco ananasso in centro tavola, lasciando in quel trofeo di Vertunno dei vuoti, dei neri, che ricordano ogni incisivo mancante e il conguente fòrnice in una bocca salivosa poco sovvenuta dalle cure dello stomatologo. Il capo cameriere bolognese lo sguarda in cagnesco e strizza i denti e poi mormora nonostante i guanti bianchi: “Che Dio ti stramaledica, lascia stare quel grappol d’uva che poi non è più buono per un’altra volta”. Il critico parla e parla: e a poco a poco, e non impedito dalla bocca piena, supera il cannoneggiamento languente dei due teologi del mangiare e del tacere. Partito a lancia in resta contro uno scrittore “barocco”, “Sì, barocco!” urla, e tra le ultime stramaledizioni del chef, butta là lungo disteso sulla tovaglia bianca, il calice di vin rosso che gli era stato così cautelosamente servito da mano inguantata di fil bianco, e ch’era gocciato così nobilmente dal collo di antica bottiglia, incravattata di bianco tovagliolo (a ritenere la stilla!). Il critico non beve se non acqua: il calice era colmo.
Egli non si riscalda col vino, ma con la sua stessa voce, come il 95 per cento degli oratori. Quel rosso carmine sulla tovaglia di novemila lire è una stilettata al cuore, per il cuore del proprietario o gestore che fosse. “Viva! allegria!” tuona l’ingegner Pacchioni: e ci bagna il dito, nel guazzo, e se lo porta al naso: per battezzare un organo che, nella specifica, non ha bisogno d’esser tinteggiato col cinabro.a

L’articolo Al Ristorante con Carlo Emilio Gadda proviene da Ristorazione con Ruggi.

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