Pastiera napoletana

Questo dolce un po’ particolare è tradizionalissimo di Napoli, dove si prepara il giovedì santo e si serve per Pasqua. La presenza dell’acqua di fior d’arancio negli ingredienti la collega alla pasticceria mediorientale, dove l’uso aromi floreali di questo genere è ancora molto comune, mentre qui s’è quasi estinto nell’età moderna. Si prepara con il grano cotto, che si trova ormai in tutti i supermercati già pronto in barattolo, ma che si può anche ottenere in casa facendo bollire nel latte del grano secco lasciato reidratare in acqua per un paio di giorni. Non so se ne valga la pena, ma non credo ed è comunque un ingrediente difficile da reperire. Esiste anche una variante tradizionale che fa uso del riso, come pure esistono pastiere al cioccolato e con la crema.

Questa versione, che è senza dubbio la migliore che abbia assaggiato, la devo al mio già plurmenzionato amico Marco. Viene spesso descritto come un dolce di difficilissima realizzazione, ma in realtà è alla portata di chiunque sappia preparare la pasta frolla e, se avete la destrezza necessaria per realizzare il tipico disegno a graticcio come si fa per le crostate di marmellata, vi verrà esteticamente perfetta. In caso contrario, il disegno si può pure non fare e verrà comunque un dolce eccellente, anche se potrebbe attirare la disapprovazione di qualche pedante partenopeo.

Per la pasta frolla (che è la mia solita versione, senza fronzoli):

  • Farina di frumento per dolci: 300 grammi, più quella che serve a infarinare il ripiano
  • Burro o strutto: 150 grammi. Lo strutto è più tradizionale, ma ormai disusato. Potete anche fare un misto, volendo.
  • Zucchero: 100 grammi
  • Un uovo
  • Un cucchiaio o due di acqua o liquore
  • Un bel pizzico di sale

Per il ripieno:

  • Ricotta di pecora molto soda e scolata di tutto il liquido, oppure mista o vaccina, se non la trovate.
  • Grano cotto: 250 grammi
  • Zucchero bianco semolato: 300 grammi
  • Cinque uova medie
  • Canditi tra arancia, zucca, e cedro: 120 grammi. Cercateli interi: sono enormemente migliori. La zucca non si trova facilmente, potete sostituirla con altra arancia o altra frutta candita a vostro gusto.
  • Cannella in polvere: mezzo cucchiaino circa.
  • Acqua di fior d’arancio: a seconda del tipo, vedi la nota dopo la fine della ricetta.
  • La scorza di un limone grattuggiata finemente
  • Un cucchiaino di estratto di vaniglia oppure i semi di un terzo di frutto circa (ma penso anche la vanillina possa al limite servire)
  • Latte intero: 200 mL circa
  • Burro o strutto: 20–30 grammi (anche in questo caso, lo strutto ormai non si usa più)
  • Zucchero al velo: un paio di cucchiai

Per prima cosa, preparate la pasta frolla com’è spiegato qui, quindi tiratela all’altezza di circa tre millimetri ed usatela per foderare uno stampo rotondo per torte di circa 28 cm di diametro (che di solito non occorre imburrare). Rifilate i bordi in modo che vengano alti circa sei centimetri o poco più, cioè circa un centimetro più dell’altezza definitiva del dolce. Ritirate alla stessa altezza la frolla che avanza e ricavatene con un coltello delle strisce lunghe quanto basta a formare il tradizionale disegno sopra alla torta. Mettete al fresco sia la base sia le strisce di pasta fino al momento di cuocere il dolce e preriscaldate il forno statico a 170 °C.

Il passaggio successivo è la preparazione del grano. Fatelo sobbollire a fuoco bassissimo nel latte con il burro, metà della scorza di limone e metà della cannella. Occorre mescolare continuamente, stando attenti a non farlo tracimare. Portate avanti la cottura fino a che non è ridotto quasi ad una poltiglia (ci vorranno 15–20 minuti), poi lasciatelo raffreddare.

Passate al setaccio la ricotta, unitevi lo zucchero e mescolateli a lungo con un cucchiaio fino a farne una crema, oppure lavorateli assieme molto bene con una frusta cercando di non incorporare aria. Tritate abbastanza finemente i canditi e incorporateli alla crema assieme al fior d’arancio, la vaniglia e il resto della scorza di limone e della cannella. Incorporate poi benissimo le cinque uova, una per volta. Aggiungete infine il composto di grano ormai raffreddato.

Trasferite il ripieno nel guscio di pasta e battetelo bene su un tavolo in modo che non rimangano grosse bolle d’aria. Disponete con molta attenzione le strisce di pasta sopra al ripieno a formare il disegno a graticcio e saldatele i bordi all’orlo della pasta frolla. Rifilate infine il bordo con un coltello lasciandolo solo pochi millimetri più alto del ripieno. Mettete lo stampo nella parte bassa del forno e lasciate cuocere per circa un’ora. Se vedeste che il ripieno cresce di molto e che rischia di far rompere le strisce di frolla, significa che ha incorporato troppa aria. Per ovviare a questo problema, basterà tirarlo fuori dal forno e lasciarlo raffreddare per qualche minuto in modo che il gas sfugga e la torta si riabbassi. Riprendete la cottura e proseguitela poi per qualche minuto in più. La parte superiore del dolce dev’essere ben dorata, se così non fosse, passata l’ora, alzatelo verso la resistenza superiore e fatelo andare per qualche minuto ancora.

Si serve fredda, da sola, dopo averla lasciata riposare a temperatura ambiente per almeno un paio di giorni, cosparsa all’ultimo momento di poco zucchero al velo. È un dolce molto robusto e basterà per almeno una dozzina di porzioni abbondanti.


Alcune precisazioni e divagazioni sul fior d’arancio, che nulla ha a che vedere con l’omonimo vino dei Colli Euganei. L’aroma potreste trovarlo in tre forme: una bottiglina da circa 150 mL con un liquido acquoso, una boccettina piccolissima oppure una minuscola fialetta con un liquido trasparente oleoso, che qui è il tipo più facile da reperire. Nel primo caso, dovrete usarne tre o quattro cucchiai, nel secondo un cucchiaio, nel terzo, direi meno di una fiala intera.

Zagare

Come suggerisce il nome, questo aroma si ricava dai fiori dell’arancio (detti anche zàgare), più precisamente dall’arancio amaro (Citrus × aurantium), o melàngolo. Da quella pianta si ottengono ben quattro tipi di olio essenziale diversi: l’olio di arancia, il nèroli, il petitgrain e, appunto, il fior d’arancio. Il primo è estratto per semplice spremitura delle bucce delle arance (tutte), per lo più quelle che avanzano dalla preparazione industriale di succhi di frutta e bibite e dalle quali, tra l’altro, si ricava anche la pectina che si vende come gelificante per confetture. Costituisce circa l’1% in peso della parte scura della buccia e, assieme alla trementina –che si ricava dalle conifere– è l’unico olio essenziale che si usa comunemente anche per scopi industriali. È fatto quasi solo di limonene, che è un piccolo idrocarburo un po’ come la benzina (un monoterpene, a esser precisi). Una volta purificato, trova impiego oltre che come aroma per il suo fortissimo odore di arancia e come farmaco contro i disturbi della digestione, anche come solvente o diluente per vernici e colle, ed è il miglior solvente disponibile per il polistirolo. Se vi sembra strano, vedete che succede provando a schiacciare una buccia d’arancia in modo che schizzi su un palloncino gonfio, oppure su una candela accesa. Viene più o meno 20 euro al litro, contro i circa 4.000 dell’olio essenziale di rosa, che tra quelli per profumeria è fra gli economici. Gli altri tre oli dell’arancio servono solo per il loro profumo. Il neroli si ottiene per distillazione dei fiori in corrente di vapore, la stessa tecnica che si usa da secoli con le rose, ed ha un aroma caratteristico e diverso da quello dei fiori freschi. Suppongo in qualche forma surrogata, è un aroma fondamentale della Coca-Cola e credo fosse anche quel che si usava per la pastiera nei tempi andati. Il petitgrain si ricava allo stesso modo, ma dalle foglie, rami e frutti acerbi. Il fior d’arancio, che c’interessa di più, si estrae dai fiori con l’uso di solventi organici, come acetone o etere di petrolio. I profumieri dei secoli passati non avevano a disposizione questi prodotti della chimica; per mantenere intatta la fragranza dei fiori freschi dell’arancio, del gelsomino e di molte altre piante che non reggono la distillazione, l’unico metodo disponibile era la costosissima e laboriosissima tecnica dell’enfleurage. Se volete sapere di che cosa si tratti, vi consiglio di vedere l’inquietante film “Profumo: storia di un assassino” o leggere il libro di Patrick Süskind da cui è stato tratto. Il fior d’arancio, in effetti, sa esattamente il profumo dei fiori freschi di quell’albero, che conosco bene perché il mio vicino ne ha uno abbastanza grande proprio sul cancello di casa, che gli dà negli anni buoni molti kili di frutti al contempo aspri e amarissimi, e pieni di semi, ma almeno è bello da vedere! Anche se in città e in una posizione riparata, un arancio dolce non sopravviverebbe in piena terra al nostro clima, ma il melangolo è il più robusto degli agrumi, tanto che si usa spesso come portainnesto. Quanto all’associazione dei fiori d’arancio col matrimonio, non ho nulla di curioso da dire.

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