La Genovese di famiglia

Questo post inizia con un dato di fatto, una nota biografica triste:  il 20 gennaio di quest’anno, mio padre Giuseppe, per tutti Pino, se ne è andato per sempre. 

Potrebbe essere un principio triste davvero, dunque, se non fosse che il dolore, lascia delicatamente il posto a una sensazione di dolcezza, di piacere, direi, se solo mi lascio trasportare e cullare da un profumo che associo inevitabilmente a lui e alla mia infanzia e adolescenza. Inconfondibile, intenso, come mai lo risentirò, credo. Pungente, ma elegante, popolare e raffinato insieme, dolce lusinghiera promessa di un pasto coi fiocchi. Uno dei miei piatti preferiti, che chiedevo con insistenza mi fosse preparato per incantare amici e fidanzati ai primi temuti incontri in famiglia. E ha funzionato ogni volta.
Ah, che gran cosa il profumo della Genovese di famiglia…

La Genovese, pur chiamandosi così, è un piatto napoletanissimo. Consiste, in estrema sintesi e in barba a qualunque personalizzazione o sacralità della ricetta stessa, in uno stracotto di cipolle e filetto di maiale (e non saltate su sulla sedia, puristi! sto scrivendo col cuore, non col ricettario sotto il braccio). 


Il maiale si scioglie nelle cipolle che si sono sciolte a loro volta in precedenza in olio e magari un tocchetto di burro  e così, con l’uno che si squaglia e sfiletta nelle braccia dell’altro, ne nasce un piatto succulento. Che fa da primo, dato che ci si condisce la pasta, rigatoni o ziti spezzati, ma anche da secondo, attenzione!, se chi serve non è così distratto o generoso da servire tutta la carne insieme alla pasta. O se chi mangia non è tanto ingordo da fare il bis di rigatoni e, senza farsi notare da nessun altro dei commensali, servirsi di abbondante carne e cipolla. Se quanto sopra descritto non accade (ma dovrete essere assai scaltri perché non avvenga e controllare costantemente, almeno con la coda dell’occhio, la pentola e chi vi si avvicina), allora potrete godere di tanta sublime delizia per l’intera durata del pranzo.


La Genovese è così, attiva a sua insaputa i 5 sensi e, se possibile, ve ne attiva anche un sesto o un settimo, ma quello dipende molto da voi e dalla vostra sensibilità e predisposizione.

Inizia con la vista, annebbiandola e velando gli occhi di lacrime eroiche mentre tagliate le cipolle (tante tante, non le peso mai ma a occhio e croce almeno un paio di kg). 

Un attimo dopo l’olfatto e l’udito… l’olio e il burro sfregolano e inevitabilmente iniziano ad attaccarsi le cipolle al fondo mentre cercate un fazzoletto per soffiarvi il naso. 

Procede poi una ventina di minuti dopo con il tatto, mentre carezzate amorevolmente il filetto di maiale e lo adagiate in pentola. Quando il suo rossore sarà ormai solo un ricordo, chiuderete la pentola, non prima di aver gettato al tutto un’occhiata desiderosa e di aver innaffiato generosamente con del vino bianco. Papà lo metteva rosso, ma questo era uno dei nostri punti di divergenza, forse uno dei più grossi nella vita. Ché siamo napoletani e il cibo lo riteniamo una cosa seria.

Poi il gusto. Si sa che nessun vero cuoco cucina senza assaggiare e così, verso metà cottura (almeno dopo un’ora quindi dalla posa del filetto sulle cipolle) si apre con trepidazione la pentola e si succhia dal cucchiaio un pochino di sughetto. Sì, si deve proprio suggere, che passi dalla lingua e poi al palato, solo così si sarà in grado di regolare di sale, finalmente, e magari di pepe. E di iniziare la lunga adorazione.

Le ore passano, il tempo vola e certe volte realizzi che non è un modo di dire, ma la pura e semplice disarmante verità. E allora lo faccio scorrere all’indietro, questo tempo veloce e avaro, per tornare ad almeno ventanni fa. Domeniche lucchesi uggiose, ritrovo di amici (napoletane entrambe le famiglie), ai fornelli Giorgio, un omone gigantesco, la cui simpatia e giovialità strideva con il suo ruolo seriosissimo in questura, e Pino, con un sorrisetto da vincitore sotto i baffi unti dall’assaggio. Aria insoddisfatta entrambi, entrambi dotati di cucchiarella (il mestolo di legno, come si chiama in napoletano), con i nervi a fior di pelle. Era il giorno della gara di Genovese. Due scuole di pensiero, due patriarchi che, nonostante i loro scarsi 50 anni ma forse molti meno, apparivano vecchi vecchissimi saggi e curvi sotto il peso di contanta responsabilità: servire alle famiglie affamate (e disinteressate, peraltro) la vera Genovese. Quella perfetta, da manuale, quella che quando la mangi resta nella storia, almeno in quella tua personale. E via con le dispute: pomodoro o non pomodoro?E’ lecito che una parte della cottura avvenga in pentola a pressione? (e questo inaspriva brutalmente gli animi dei contendenti fino quasi a renderli rissosi). Vino bianco o rosso o entrambi a caso? Burro sì o burro no? E così le ore andavano, andavano anche i pomeriggi, per noi ragazzi di là a far chiacchiera spensierati, per le mogli pure e i due contendenti in attesa del verdetto. Non ricordo se papà abbia mai vinto, forse, solo per dispetto, votavamo tutti noi quella di Giorgio. Si sa mai si montasse la testa…


Le ore passano davvero assai in fretta e in due ore circa (chi dice più chi dice meno) vi ritroverete con la Genovese bella e pronta. A tavola, finalmente. Una porzione che vi sembrerà sempre troppo striminzita e ingiusta (ma non lo è forse la vita stessa?) chiunque ve l’abbia servita, persino se vi sarete serviti da soli. Una forchettata, la prima, e il sussulto del sapore forte della cipolla ormai quasi crema. Poi vi capiterà sotto i denti un pezzettino sfilacciato di maiale da masticare, ma solo un accenno, cercherete quindi di raccogliere, nella forchettata successiva, le cipolle aiutandovi con un rigatone. Li fanno bucati apposta, no? 

Nulla come il profumo dell’infanzia, come quei sapori che ci hanno accompagnati negli anni, quei piatti con cui siamo cresciuti. Nulla riempie il cuore come riproporli, cucinarli e poi mangiarli con un sorriso, magari condividendoli con amici, come farò oggi, tra poco, non appena spento il pc. Bevendoci anche questo vino spagnolo, perché sapete, Napoli e la dominazione…


Il tempo vola, ma che soddisfazione poterlo fermare in un profumo. 
Quello della Genovese di famiglia.


Amelia De Francesco

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