Un odore, un profumo e i vapori che aleggiavano fino ad arrivare nella mia stanza.
Erano gli aromi di una famiglia, anzi di tante famiglie . Sono cresciuta con folate di sugo che arrivavano anche ai viandanti che per caso passavano di fronte a casa mia. Non potevi non notarli, era impossibile. Ti penetravano le narici e arrivavano su su dritti fino ai recettori più assopiti della mente. Ti rimanevano addosso, anche i vestiti che indossavi diventavano ricettari ambulanti del tuo pranzo. La spesa per i grandi pranzi iniziava giorni prima, nulla veniva lasciato al caso. Nessun ingrediente poteva essere aggiunto senza prima essere stato provato o assaggiato, si rischiava che il lavoro di tante ore venisse rovinato da un sapore sbagliato.
Sono cresciuta così, senza volerlo più diventavo adulta e più accostavo il ricordo di un’emozione alle pentole che borbottavano in cucina. L’immagine di mamma che il giorno della festa iniziava la mattina presto quasi all’alba a cuocere, sobbollire, saltare, tritare, rosolare e spignattare è una di quelle scene che se chiudo gli occhi un solo istante sono così nitide da sembrare il prologo di un film francese …ovviamente noir. Perché non era festa se non accadeva qualcosa che facesse tremare la terra sotto i piedi. Il gatto che fregava di soppiatto il coscio della gallina per il brodo, il forno che improvvisamente smetteva di funzionare, la crema che si stracciava all’ultimo momento, o la tanto temuta telefonata della zia spoletina che teneva occupati per ore dimenticandoci del roast beff sul fuoco.
La tensione di mamma arrivava ai picchi più alti al momento del primo boccone una volta seduti a tavola. Arrivava con il pentolone fumante , sembrava un treno merci colmo di odori, di essenze e tradizioni. Distribuiva i piatti a tutti i commensali, l’ultimo era sempre quello di papà , perché era il più condito, il più sugoso, quello che trasudava olio e spezie. Una volta agguantata la forchetta in un religioso silenzio quasi reverenziale , mamma aspettava il verdetto, e tanto qualsiasi cosa tu potessi dire il più velocemente possibile perché volevi spazzare via tutta quella bontà che avevi di fronte , mamma già sentenziava che non era come doveva essere. Ma il momento più bello era quando papà con la crosta fragrante e croccante del pane raccoglieva con un’ attenzione e precisione chirurgica il sugo attaccato alla pentola e con il gesto d’amore più sincero che un padre possa fare lo negava a se stesso per darlo a noi golose e fameliche figlie.
Non so perché ma la maggior parte dei ricordi di casa mia sono seduti attorno ad un tavolo. Per noi non era l’occasione di un’abbuffata ma era il rituale più bello per stare insieme. La scelta del menù richiedeva una notevole attenzione, occorreva pensare agli invitati, a cosa avrebbero voluto mangiare, mamma consultava il suo libro delle cene in cui annotava cosa aveva già preparato per loro nei convivi precedenti. D’estate si cenava in giardino, un grande e lungo tavolo imperiale con tutti gli amici vicini. Tante candele e il rumore del fiume come colonna sonora. Mamma pensava ai piatti forti, alle pappardelle con il cinghiale, al filetto bardato in crosta di pane, e lasciava alla prole fantasiosa la scelta e la preparazione degli antipasti. Papà controllava che tutto fosse in ordine, che la tavola apparecchiata fosse splendente, con i bicchieri più belli, le posate appena argentate e i posti assegnati nel modo corretto. A tutti i pranzi io e le mie sorelle dovevamo essere obbligatoriamente sedute accanto a lui. C’erano ospiti importanti, amici di vecchia data, ma noi dovevamo essere vicino a mamma e papà. Come scudi viventi alle infamie e alle malvagità del mondo.
Ogni piccolo grande giorno della mia vita ha un sapore. Posso ricordarmi esattamente cosa ho mangiato al mio undicesimo compleanno, e qual’era il sapore del dolce quando la domenica andavo a trovare i miei nonni. Le passeggiate in montagna mi assicuravano i pranzi più sinceri, l’insalata tagliata e condita sopra ad una roccia, la soppressata condivisa con gli altri, il pane con il pomodoro sopra e l’olio di Trevi dell’ultima spremitura.
Vorrei farvi sentire il gusto delle mie feste, vorrei farvi ascoltare il suono della lingua che preme sul palato un semplice chicco d’uva. Vorrei rivivere i giorni della mia famiglia e di una casa che forse non esisterà più.
N.B.
Ne parlo al passato, solo perchè il suono del portone che si chiude di quella casa non esiste più.
Ne parlo come se fosse un’altra vita, come se fosse un’altra tavola apparecchiata.