Tradizioni di S. Lucia: Arancine palermitane e Cicci irpini con gli Chef Paolo Barrale e Giovanni Mariconda , ospiti al Moera di Avella

L’Arancina/o, oggi prodotto simbolo e identitario dello street food siciliano e palermitano in particolare, ha un giorno in cui è d’obbligo mangiarla: è il giorno di Santa Lucia, in cui non si mangiano  pasta né pane   ed è  tradizionalmente consumata a Palermo appunto,  con la Cuccìa, per onorare il miracolo che secondo la leggenda la Santa (cara ai palermitani tanto quanto la Santuzza Rosalia) ha compiuto.
I Cicci (legumi) di Santa Lucia in Irpinia, sono una zuppa piuttosto densa di legumi che si consuma fredda. Per antica tradizione irpina e in particolare nell’avellinese, le famiglie la preparano (lasciando i legumi a bagno tutta la notte)  per Santa Lucia, patrona dell’Irpinia, e la regalano.

Come per le tutte le ricette popolari, ogni famiglia ha la sua “composizione” della zuppa, di base composta da fagioli, ceci, mais, lenticchie, cotti separatamente poi ripassati in padella con aglio e olio e aggiunta di papaccelle (peperoni sott’aceto).

Per quanto riguarda le arancine, in principio furono gli Arabi, onnipresenti nella storia siciliana, a mangiare polpette di carne macinata mista a riso, aromi e zafferano,  (ma senza pomodoro, che non era ancora arrivato in Europa): praticamente, quello che oggi si chiamerebbe arancina scomposta.
Gli Arabi infatti hanno importato il riso (e lo zafferano)  in Europa e in Italia, proprio partendo dalla Sicilia, dove  i territori paludosi della piana di Catania  e di Ribera avevano le condizioni ideali  per lo sviluppo delle piantagioni di riso che a tutt’oggi ha un posto d’onore nella cucina siciliana,  dall’arancino/a al timballo di “risu u furnu”, ai “badduzzi ‘nto brodu”, palline di risotto allo zafferano infarinate e fritte e servite poi in brodo.  Le coltivazioni di riso in Sicilia continuarono pressoché fino all’inizio del secolo scorso,  quando (pare) che Cavour chiese di trasferire solo al nord le coltivazioni e successivamente con Mussolini  quando ordinò “la bonifica totale” delle zone paludose in Sicilia, finirono definitivamente.
Oggi però ci sono alcuni coltivatori che hanno ripreso con successo le coltivazioni di riso in Sicilia, al momento la vendita è limitata all’isola,  ma le coltivazioni e quindi la produzione del riso siciliano è in crescita (Qui vi parlo dell’ArancinO 100% siciliano del messinese Tommaso Cannata).
E in onore di Santa Lucia, per una sera le due tradizioni si sono fuse, grazie agli chef Paolo Barrale, palermitano doc e Giovanni Mariconda, valido rappresentante della terra e delle tradizioni Irpin, ospiti  in campo “neutro” dello chef Francesco Fusco al Moera – Azienda Agricola e degustazione di Avella per una goliardica serata scaldata non solo dal calore del camino, ma anche dall’allegria  dei tanti ospiti amici  che hanno potuto divorare arancine “accarne” e “abburro” a volontà!

“Quando ero piccolo, le arancine erano solo bianche, al burro appunto, non esistevano quelle al ragù e s’ammugghiavunu nto zuccuru, si rotolavano nello zucchero”, racconta Paolo Barrale mentre frigge ininterrottamente e intanto  Giovanni Mariconda, mentre spadella  descrive la sua ricetta dei cicci, in cui prevede anche cicerchie e grano.
Sempre dalla tradizione palermitana anche le panelle, deliziose  croccanti frittelle di farina di ceci.

E per chiudere in dolcezza, il panettone prodotto da Paolo Barrale e la Cassata avellana in verrina della pasticceria Pesce di Avella.
qui l’album della serata.

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