Kitchen Confidential di Anthony Bourdain: 275 pagine di cui 200 di pura noia

Senza prenotazione con Anthony Bourdain è un programma televisivo decisamente interessante, che spicca sul piatto orizzonte dei palinsesti televisivi per la sua capacità di raccontare attraverso la metafora del cibo, persone, città o intere nazioni. Per il sottoscritto un appuntamento fisso, soprattutto nei fine settimane, quando vengono riproposte le repliche delle precedenti stagioni.
Indimenticabile la puntata girata in Libia quando Bourdain dà voce ai protagonisti della ribellione contro il regime di Mu’ammar Gheddafi visitando le macerie delle città bombardate, i mausolei dedicati ai martiri delle primavera araba e incontrando i giovani che hanno combattuto per riappropriarsi della democrazia. Sempre in questo episodio ricordo ancora con emozione la voce di un giovane ribelle, che seduto al tavolo con Bourdain al Uncle Kentaki ( vedi immagine ) una sorta di versione locale della famosa catena KFC, afferra un pezzo di pollo fritto e afferma “This is the taste of freedom”.
Grazie al traino di questa serie televisiva ho deciso d’acquistare Kitchen Confindential ( Feltrinelli 2001 )

La biografia del chef-conduttore inizia con il racconto di un giovanissimo Bourdain che negli anni cinquanta, in viaggio con la famiglia nel sud della Francia, scopre l’amore per il cibo grazie all’incontro fatale con un’ostrica.

“Io la presi in mano, mi rovesciai in bocca il contenuto della conchiglia seguendo le istruzioni del raggiante monsieur Saint-Jour, e ingollai rumorosamente. Sapeva di acqua salata, di brina e di carne e in qualche modo del futuro.
E ogni cosa fu diversa, […] avevo imparato qualcosa. In maniera viscerale, istintiva, spirituale – e in un certo senso anche propedeuticamente sessuale – e non potevo più fare marcia indietro. Il genio era uscito dalla lampada. La mia vita di cuoco e chef era iniziata. Il cibo aveva potere”

Poi la narrazione si sposta nella New York degli anni settanta, in un vorticoso turbinio di cadute e ripartenze, ristoranti sull’orlo del fallimento, tonnellate di cocaina, fiumi di alcool, curricula inviati, colloqui falliti e ambigui personaggi dallo stile malavitoso, fino arrivare agli anni novanta quando Bourdain diventa il primo chef della brasserie Les Halles a Park Avenue.

Ho faticato parecchio a terminare il libro, lasciato e ripreso diverse volte e infine concluso più per dovere che per piacere. Purtroppo non sono riuscito ad appassionarmi al racconto dello chef newyorkese che si concentra più sulle complicate relazioni tra il capo-cuoco e i vari personaggi che ruotano attorno al ristorante, piuttosto che sul cibo e alle sensazioni che quest’ultimo può regalare al nostro palato. Ulteriore elemento che mi ha scoraggiato durante la lettura è la ripetizione costante del dogma: “la gestione di una ristorante di successo richiede una dedizione totale e una cucina organizzata come la Brigata Sassari” che, per quanto veritiera possa essere questa affermazione, non può riemergere costantemente in tutto il romanzo al punto da farti esclamare: OK l’ho capito passiamo oltre per favore. Infine la biografia di Bourdain ripercorre l’esatta sequenza del mito americano del selfmade man: ascesa, caduta, tonfo, comprensione dei propri sbagli, riabilitazione e raggiungimento del successo solo grazie al duro lavoro e alle proprie forze. Storia autentica o volutamente markettara per incoraggiare la vendita del libro?

 

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