Stralci n.14
Charles Green, Christmas Comes But Once a Year,
from the Pears Christmas Annual 1896
“Più volte il campanello era squillato attraverso tutta la casa. Giunse il pastore Wunderlich, un vecchio signore tarchiato, in abito talare lungo e nero, con i capelli incipriati e il volto bianco, placidamente giocondo, in cui brillavano un paio di vispi occhi grigi. Era vedovo da molti anni e si considerava uno scapolo dei vecchi tempi, come il lungo signor Grätjens, il mediatore, che arrivò con lui e teneva in continuazione una mano scarna chiusa a cannocchiale dinanzi all’occhio, come se esaminasse un dipinto; era reputato da tutti un buon conoscitore d’arte.
Arrivarono anche il senatore dottor Langhals con sua moglie, vecchi amici di casa, – per non dimenticare il commerciante di vini Köppen, dal viso largo e rubizzo fra le alte spalle imbottite, insieme con la consorte, altrettanto corpulenta…
Erano già passate le quattro e mezzo, quando finalmente fecero il loro ingresso i Kröger, i vecchi e i figlioli, il console Kröger con la moglie e i figli Jakob e Jürgen che avevano circa l’età di Tom e Christian. E quasi nello stesso momento giunsero anche i genitori della signora Kröger, il commerciante di legname all’ingrosso Oeverdieck e sua moglie, una vecchia e tenera coppia di sposi, che solevano chiamarsi dinanzi a tutti con i vezzeggiativi più affettuosi.
«I raffinati arrivano tardi,» disse Buddenbrook e baciò la mano alla suocera. «Ma arrivano in tanti» e Johann Buddenbrook fece un largo gesto col braccio verso tutta la parentela Kröger, mentre stringeva la mano al vecchio…
Lebrecht Kröger, il cavaliere à la mode, figura alta e signorile, portava ancora i capelli leggermente incipriati, ma vestiva secondo la moda. Sul panciotto di velluto gli sfavillavano due file di bottoni di gemme. Justus, suo figlio, con piccoli favoriti e mustacchi dalle punte all’insù, nell’aspetto e nei modi assomigliava molto al padre; gli erano propri anche gli stessi gesti delle mani, circolari ed eleganti.
Non si posero neppure a sedere, rimasero in piedi aspettando la cosa più importante, e riempiendo l’attesa con discorsi un po’ casuali. E Johann Buddenbrook, il vecchio, offrì ben presto il braccio a Madame Köppen dicendo forte:
«Allora, se abbiamo tutti appetito, mesdames et messieurs…»
La signorina Jungmann e la cameriera avevano aperto i battenti della porta bianca della sala da pranzo, e la compagnia mosse lentamente, con calma sicura; si poteva contare su un sostanzioso banchetto, dai Buddenbrook…
III
Quando tutti avevano cominciato a muovere verso la sala da pranzo, il padrone di casa più giovane era corso con la mano al lato sinistro del petto ove frusciava una carta: il sorriso di società gli era subito scomparso dal volto per dar luogo a un’espressione tesa e preoccupata; sulle tempie gli vibravano un paio di muscoli, come se rinserrasse i denti. Solo per figura fece qualche passo verso la sala; poi però si trattenne indietro e cercò con gli occhi la madre che, tra gli ultimi, al braccio del pastore Wunderlich, stava per passare la soglia.
«Pardon, caro signor pastore… Due parole, mamma!» E mentre il pastore gli faceva un vivo cenno d’assenso, il console Buddenbrook trasse indietro la vecchia signora nella stanza dei paesaggi e presso la finestra.
È arrivata, per dirla in breve, una lettera da Gotthold,» disse in fretta e a bassa voce, guardandola negli occhi scuri interroganti e traendo di tasca la carta piegata e suggellata. «Questa è la sua scrittura… È la terza volta che gli scrive, e papà ha risposto solo alla prima… Che fare? La lettera è arrivata da due ore, e avrei dovuto rimetterla già al signor padre, ma potevo oggi guastargli il buon umore? Che cosa ne dice, mamma? Si è ancora in tempo per chiamarlo indietro…»
«No, hai ragione, Jean, aspetta!» disse Madame Buddenbrook e come le era consueto afferrò con un movimento rapido il braccio del figlio. «Che cosa mai ci sarà dentro!» aggiunse inquieta. «Non cede, quel ragazzo. Si ostina su questo indennizzo per la sua quota della casa… No, no, Jean, non ora… Forse stasera, prima di andare a letto…»
«Che fare?» ripeté il console, scuotendo il capo chino. «Io stesso, non so quante volte, volevo pregare papà di cedere… Non deve sembrare che io, il fratellastro, mi sia fatto il nido presso i genitori ed abbia intrigato contro Gotthold… anche nei confronti del signor padre bisogna che io eviti di dar quest’impressione. Ma se devo essere sincero… in fin dei conti sono socio della ditta. E poi, per ora, Bethsy e io paghiamo un affitto assolutamente regolare per il secondo piano… Per quanto riguarda mia sorella a Francoforte, ora la cosa è a posto. Suo marito riceve già adesso, mentre papà è vivo, un’indennità, il nudo quarto della somma d’acquisto della casa… È un affare vantaggioso che papà ha concluso benissimo, senza ostacoli, e che dal punto di vista della ditta è estremamente soddisfacente. E se papà si mantiene così brusco verso Gotthold, è…»
«No, sciocchezze, Jean, la tua posizione è chiarissima. Ma Gotthold crede che io, la sua matrigna, pensi soltanto ai miei figli e intenzionalmente gli allontani suo padre. È questo il triste…»
«Ma è colpa sua!» esclamò il console quasi a voce alta, moderandola poi con uno sguardo verso la sala da pranzo.
«È colpa sua, questa situazione triste! Giudichi lei, mamma! Perché non ha saputo essere ragionevole! Perché ha dovuto sposare quella Demoiselle Stüwing e la… bottega…»
Il console accompagnò questa parola con un riso stizzoso e imbarazzato. «È una debolezza l’antipatia del signor padre per la bottega; ma Gotthold avrebbe dovuto rispettare questa piccola vanità…»
«Ah, Jean, il meglio sarebbe che papà cedesse!»
«Ma posso consigliarglielo io?» mormorò il console, con un gesto nervoso della mano verso la fronte. «Sono toccato personalmente, e perciò dovrei dire: paghi, signor padre. Ma io sono anche socio, io devo rappresentare gli interessi della ditta, e se papà, dinnanzi a un figlio disubbidiente e ribelle, non crede d’esser in obbligo di sottrarre la somma al capitale sociale… Si tratta di più di undicimila talleri. È una bella cifra… No, no, io non posso consigliare… ma neppur sconsigliare. Non voglio saperne nulla. Solo, la scena con papà mi è dèsagrèable…»
«Stasera tardi, Jean. Ora vieni, ci aspettano…»
Il console ripose il foglio nella tasca sul petto, offrì il braccio alla madre, e insieme fecero ingresso nella sala da pranzo vivamente illuminata, ove gli ospiti avevano appena finito di prendere posto intorno alla lunga tavola.
Sullo sfondo celeste delle tappezzerie, tra esili colonne, bianche divinità spiccavano quasi in rilievo. Le pesanti tende rosse erano accostate, e a ciascun angolo della stanza otto candele ardevano su un alto candelabro dorato, oltre a quelle dei candelieri d’argento da tavola. Sul massiccio buffè, dirimpetto alla stanza dei paesaggi, era appeso un grande quadro, un golfo italiano, che coi suoi toni azzurri sfumati così illuminati, faceva un magnifico effetto. Lungo le pareti stavano imponenti sofà dalla spalliera rigida, rivestiti di damasco rosso.
Ogni traccia di preoccupazione e di inquietudine era scomparsa dal volto di Madame Buddenbrook, quando ella prese posto tra il vecchio Kröger, che sedeva a capotavola dalla parte della finestra, e il pastore Wunderlich.
«Bon appètit!» disse col suo breve, rapido, cordiale cenno del capo, percorrendo con uno sguardo veloce tutta la tavola, fin laggiù dove stavano i ragazzi…
IV
«Tutti i miei complimenti, ripeto, Buddenbrook!» la voce poderosa del signor Köppen soverchiò la conversazione generale, quando la cameriera con le nude braccia rosse, il pesante abito a righe, la cuffietta bianca sulla nuca, aiutata dalla signora Jungmann e dalla cameriera della moglie del console, ebbe servito la bollente zuppa di erbaggi con il pane abbrustolito e cautamente si cominciarono a usare i cucchiai.
«Tutti i miei rispetti! Questa larghezza, questa signorilità… Bisogna proprio dirlo, qui si vive, bisogna dirlo…» Il signor Köppen non aveva frequentato i precedenti proprietari della casa; s’era arricchito da poco, non proveniva certo da una famiglia patrizia e purtroppo non riusciva a perdere l’abitudine di certi modi poco fini come quel ripetuto «bisogna proprio dirlo.»
«Ed è anche costato un’inezia,» osservò asciutto il signor Grätjens, che doveva saperlo, e studiò il golfo con la mano a cannocchiale.
S’era cercato nei limiti del possibile di disporre i commensali a coppie e di interrompere la catena dei parenti con gli amici di casa. Ma non s’era riusciti ad applicare rigorosamente la norma, e come al solito i vecchi Oeverdiek stavano seduti quasi l’una in grembo dell’altro, scambiandosi sorrisi affettuosi. Il vecchio Kröger invece troneggiava alto e diritto fra la moglie del senatore Langhals e Madame Antoinette e, con eleganti gesti delle mani, prodigava alle due signore le sue educate facezie.
«Quando è stata costruita questa casa?» domandò attraverso la tavola il signor Hoffstede al vecchio Buddenbrook, che si intratteneva in tono gioviale e un po’ ironico con Madame Köppen.
«Nell’anno… aspetta… Verso il 1680, se non sbaglio. Mio figlio, del resto, è più bravo in queste date…»
«Ottantadue,» confermò con un accenno di inchino il console, che sedeva più in là, senza dama, di fianco al senatore Langhals. «Fu pronta nell’inverno del 1682. La Ratenkamp & C. incominciava allora la sua ascesa brillantissima… Triste, questo declino della ditta negli ultimi vent’anni…»
Nella conversazione generale sopravvenne un silenzio che durò mezzo minuto. Tutti guardarono nel piatto e pensavano alla famiglia un tempo così brillante che aveva costruito e abitato la casa, e che ora se n’era andata impoverita, decaduta…
«Già, triste,» disse il mediatore Grätjens; «quando si pensa a quale pazzia provocò la rovina… Se almeno Dietrich Ratenkamp non si fosse preso per socio quel Geelmaack! Mi sono cacciato le mani nei capelli, Dio lo sa, quando costui incominciò a mettersi negli affari. Ho saputo da fonte sicura, signori miei, come speculava orribilmente dietro le spalle di Ratenkamp, e rilasciava cambiali e tratte a destra e a sinistra in nome della ditta… Alla fine ci fu il crollo… Le banche diffidarono, mancò la copertura… Loro non ne hanno idea… Chi controllava anche solo il magazzino? Geelmaak forse? Vi hanno fatto man bassa come i topi, anno dopo anno! Ma Ratenkamp non si curava di nulla…»
«Era come paralizzato,» disse il console. Il suo viso aveva assunto un’espressione tetra e chiusa. Chino in avanti, muoveva il cucchiaio nella zuppa e di tanto in tanto, con i suoi piccoli occhi rotondi e infossati, gettava uno sguardo rapido verso i commensali che sedevano più in là.
«Andava avanti come sotto un peso, e credo che si possa capirlo. Che cosa lo condusse ad associarsi con Geelmaack, che portava una miseria di capitale e non godeva certo della migliore reputazione? Deve aver sentito il bisogno di scaricare su qualcuno, chiunque esso fosse, una parte della sua terribile responsabilità, poiché avvertiva che si stava andando inarrestabilmente al tracollo… Era una ditta finita, una vecchia famiglia ormai passée. Sicuramente Wilhelm Geelmaack ha dato solo l’ultima spinta verso la rovina…»
«Dunque, caro signor console, lei è del parere,» disse con un sorriso accorto il pastore Wunderlich, e versò del vino rosso nel bicchiere della sua dama e nel suo, «che anche senza l’aggiunta di Geelmaack e della sua folle amministrazione, tutto sarebbe andato com’è andato?»
«Questo forse no,» disse il console pensieroso, senza rivolgersi ad alcuno in particolare. «Ma credo che Dietrich Ratenkamp dovesse necessariamente, inevitabilmente associarsi con Geelmaack, affinché si compisse il destino… Deve aver agito sotto il peso di una necessità inesorabile… Oh, io sono convinto che in parte sapesse dei maneggi del socio, e poi non fosse così ignaro neppure della situazione del magazzino. Ma era paralizzato.»
«Be’, assez Jean,» disse il vecchio Buddenbrook deponendo il cucchiaio. «Questa è una delle tue idées…»
Il console sollevò il bicchiere verso il padre con un sorriso vago. E Lebrecht Kröger esclamò:
«Suvvia, ora teniamoci alle gioie del presente!»
Così dicendo, afferrò con un gesto cauto ed elegante il collo della sua bottiglia di vino bianco, col tappo sormontato da un piccolo cervo d’argento, la inclinò un poco ed esaminò con attenzione l’etichetta. «C. F. Köppen,» lesse, e accennò col capo al commerciante di vini; «Eh, sì, che cosa saremmo senza di lei!»
I piatti di Meissen con l’orlo dorato furono cambiati, mentre Madame Antoinette sorvegliava attenta i movimenti delle cameriere, e la signora Jungmann gridava ordini nell’imbuto del portavoce che collegava la sala da pranzo alla cucina. Fu passato in giro il pesce, e il pastore Wunderlich, servendosi con cautela, disse:
«Queste gioie del presente, però, non sono sempre così ovvie. I giovani che ora si rallegrano qui con i vecchi, forse non pensano che poté anche andar diversamente… Io posso ben dire di aver preso parte personalmente, non di rado, alle sorti dei nostri Buddenbrook… Ogni volta che mi vedo davanti queste cose,» – e si volse a Madame Antoinette, sollevando dalla tavola uno dei pesanti cucchiai d’argento -, «mi viene da chiedermi se non facessero parte dei pezzi che, nell’anno sei, teneva in mano il nostro amico, il filosofo Lenoir, sergente di Sua Maestà l’imperatore Napoleone … e ricordo il nostro incontro nella Alfstrasse, Madame…»
Madame Buddenbrook chinò gli occhi dinanzi a sé, con un sorriso tra imbarazzato e memore. Tom e Tony, laggiù in fondo, che non volevano mangiare il pesce e avevano seguito attentamente i discorsi dei grandi, gridarono quasi insieme:
«Oh sì, nonna, racconti!» Ma il pastore, sapendo che ella non amava narrare quel caso per lei un po’ penoso, iniziò in sua vece ancora una volta la vecchia storia, che i ragazzi avrebbero ascoltato volentieri per la centesima volta, e che forse qualcuno non conosceva ancora…
«Dunque, si figurino: è un pomeriggio di novembre, freddo e piovoso da far pietà, io me ne torno da una faccenda del mio ufficio, su per la Alfstrasse, e penso alla miseria dei tempi. Il principe Blücher se n’era andato, i francesi erano in città, ma ci si accorgeva poco dell’agitazione che regnava. Le strade erano silenziose, la gente rimaneva tappata in casa. Il macellaio Prahl, che con le mani in tasca, piantato dinanzi alla sua porta, aveva detto con la sua voce più tonante: “Questo poi è troppo, è proprio un po’ troppo!” s’era preso, pam!, una schioppettata nella testa… Be’, io penso: dovrei andare a dar un’occhiata ai Buddenbrook, una parola amichevole potrebbe riuscire gradita; il marito è a letto con la risipola, e Madame avrà il suo da fare con l’acquartieramento.
«Allora, proprio in quel momento, chi mi vedo venir incontro? La nostra stimatissima Madame Buddenbrook. Ma in quale stato! Va a precipizio sotto la pioggia, senza cappello, si è appena gettata uno scialle sulle spalle, non corre, vola, e la sua coiffure è tutto uno scompiglio… Eh, sì, Madame! di coiffure non si poteva quasi più parlare.
«“Che piacevole surprise!” dico, e, poiché ella non mi vede, mi permetto di trattenerla per il braccio, non prevedendo nulla di buono… “Dove corre, mia cara?” Ella mi scorge, mi guarda, ed esclama: “Ah, è lei… addio! È la fine! Vado a buttarmi nel Trave!”
«“Dio guardi!” esclamo, e mi sento sbiancare. “Quello non è posto per lei, mia cara! Ma che è successo?” E la trattengo con tutta la forza che il rispetto consente. “Che è successo?”, grida lei, e trema. “Si son buttati sull’argenteria, Wunderlich! Questo è successo! E Jean è a letto con la risipola e non mi può aiutare! E non potrebbe aiutarmi neanche se fosse in piedi! Rubano i miei cucchiai, i miei cucchiai d’argento; questo è successo, Wunderlich, e io vado a buttarmi nel Trave!”»
«Be’, io trattengo la nostra amica, le dico quel che si dice in questi casi, “Courage,” dico, “carissima!” e “Tutto s’aggiusterà!” e “Vediamo di parlare con quella gente, si calmi, la scongiuro, e andiamo!” E, su per la strada, la riconduco a casa. Nella sala da pranzo, di sopra, troviamo la soldataglia come Madame l’ha lasciata; una ventina di uomini che si danno da fare con il grande cofano dell’argenteria.
«“Signori miei,” chiedo cortesemente, “con chi di loro potrei conferire?” Be’, si mettono a ridere e gridano: “Con noi tutti, papà!” Ma poi si fa avanti uno e si presenta, uno alto come un albero, con i mustacchi neri impomatati e due manacce rosse che sbucano dalle maniche gallonate. “Lenoir,” dice, e saluta con la sinistra giacché nella destra tiene un mazzo di cinque o sei cucchiai d’argento, “sergente Lenoir. Che cosa desidera il signore?”»
«“Signor ufficiale!,” dico, puntando sul point d’honneur. “Le sembra che metter mano in queste cose si concili col suo autorevole grado?… La città non ha chiuso le porte all’imperatore…” – “Che vuole?,” rispose lui, “è la guerra! Gli uomini hanno bisogno di queste posate…”
«“Dovrebbe usare qualche riguardo,” lo interrompo, perché mi viene un’idea. “Questa signora,” dico, e cosa non si dice in simili circostanze!, “la padrona di casa, non è tedesca, è quasi una sua compatriota, è una francese…” – “Come, una francese?” ripete lui. E cosa credono che abbia aggiunto quell’armigero spilungone? “Un’emigrata, dunque? Ma allora è una nemica della filosofia!”
«Rimango di stucco, ma inghiotto la risata. “Vedo che ella è un uomo colto,” dico. “Ripeto che non mi sembra degno di lei metter mano in queste cose!” Tace per un momento; poi d’improvviso diventa rosso, butta i suoi sei cucchiai nel cofano e grida: “Ma chi le dice che io intendessi far altro che dare un po’ un’occhiata a queste cose?! Graziosi oggetti! Se qualcuno dei miei uomini dovesse poi anche prendersi un pezzo per souvenir…”
«Be’, comunque di souvenirs se ne presero abbastanza; appellarsi alla giustizia umana o divina non servì a nulla…
Probabilmente non conoscevano altro dio che quel terribile piccolo uomo… »
V
«Lei lo ha visto, signor pastore?»
I piatti furono cambiati di nuovo. Comparve un enorme prosciutto dalla crosta impanata, rosso mattone, affumicato e cotto, con salsa di scalogno bruna e aspretta e con una tale quantità di legumi che da un solo piatto tutti si sarebbero potuti saziare. Lebrecht Kröger si assunse la funzione dello scalco. I gomiti leggermente rialzati, i lunghi indici distesi sul dorso del coltello e della forchetta, tagliò con precauzione le fette sugose. Fu servito anche il capolavoro della moglie del console, la «terrina russa,» una composta di varia frutta conservata sotto spirito e piccanti.
No, il pastore era dolente, ma non aveva mai visto Bonaparte. Il vecchio Buddenbrook invece, e Jean Jacques Hoffstede, lo avevano visto faccia a faccia; il primo a Parigi, poco prima della campagna di Russia, in occasione di una parata nel cortile delle Tuileries, l’altro a Danzica…
«Mio Dio, no, non aveva un aspetto cordiale,» disse il poeta sollevando le sopracciglia e mettendosi in bocca una ben composta forchettata di prosciutto, cavoletti di Bruxelles e patate. «Del resto dicono che a Danzica fosse già di ottimo umore. Si raccontava allora una facezia… Lui giocava d’azzardo tutto il giorno con i tedeschi, e non proprio senza rischi; la sera, invece, giocava con i suoi generali. “N’est-ce pas, Rapp,” disse una volta, prendendo dal tavolino una manciata di monete d’oro, “les Allemands aiment beaucoup ces petits Napoléons” – “Oui, Sire, plus que le Grand!” rispose Rapp…»
In mezzo all’ilarità generale – poiché Hoffstede aveva narrato l’aneddoto con garbo, imitando perfino un poco la mimica dell’imperatore -, il vecchio Buddenbrook disse:
«Be’, senza scherzi, ogni rispetto per la sua grande personalità… Che uomo!»
Il console, serio, scosse il capo:
«No, no, noi giovani non sentiamo più alcun doveroso rispetto per l’uomo che assassinò il duca di Enghien, che massacrò gli ottocento prigionieri in Egitto…»
«Tutto questo è probabilmente esagerato e falsato,» disse il pastore Wunderlich. «Il duca doveva essere un leggero e un ribelle, e quanto ai prigionieri, la loro esecuzione sarà stata verosimilmente la decisione ben ponderata e necessaria di un regolare consiglio di guerra…» E parlò di un libro che era uscito da qualche anno e che egli aveva letto, opera di un segretario dell’imperatore, che meritava tutta l’attenzione…
«Nondimeno,» insistette il console, smoccolando una candela dalla fiamma vacillante sul candeliere dinanzi a lui, «io non capisco, non capisco l’ammirazione per quel mostro! Come cristiano, come uomo di sensi religiosi, non trovo nel mio cuore alcun posto per un sentimento simile.»
Il suo volto aveva assunto un’espressione quieta e fervida, il capo addirittura un po’ reclino di fianco – mentre sembrava proprio che suo padre e il pastore si scambiassero un lievissimo sorriso:
«Sì, sì,» ridacchiò Johann Buddenbrook, «ma i piccoli Napoléons non erano mica male, eh? Mio figlio nutre maggior fervore per Luigi Filippo,» aggiunse.
«Fervore?» ripeté Jean Jacques Hoffstede un pochino beffardo… «Un accostamento curioso! Filippo Egalité e il fervore…»
«Oh, mi pare davvero che dalla monarchia di luglio abbiamo da imparare moltissimo…» Il console parlava con serietà e calore. «L’atteggiamento amichevole e incoraggiante del costituzionalismo francese verso i nuovi ideali pratici e gli interessi della nostra epoca… è cosa ben degna di riconoscenza…»
«Ideali pratici… già, già…» Il vecchio Buddenbrook, durante una pausa che concesse alle sue mascelle, giocherellava con la tabacchiera d’oro. «Ideali pratici… no, non è roba per me!» Per il dispetto, ricadeva in forme dialettali.
«Adesso spuntano come funghi istituti professionali, e istituti tecnici, e scuole commerciali, e il ginnasio e l’istruzione classica sono diventati d’improvviso bêtises, e tutti non pensano che alle miniere… alle industrie… a far soldi… Bello, tutto questo, magnifico! Ma anche un pochino stupido d’altra parte, alla lunga – no? Non so perché, ma lo sento come un affronto… non ho detto nulla, Jean… la monarchia di luglio è una buona cosa…»
Ma il senatore Langhals, con Grätjens e Köppen, stavano dalla parte del console. Sì, davvero: bisognava avere il massimo rispetto per il governo francese e per le analoghe aspirazioni in Germania… Il signor Köppen era divenuto ancora più rosso durante il pasto e soffiava rumorosamente; il viso del pastore Wunderlich invece restava bianco, fine e sveglio, sebbene egli con tutta calma bevesse un bicchiere dopo l’altro.
Le candele andavano al fine piano piano, e ogni tanto, quando le fiamme vacillavano per una corrente d’aria, spandevano sopra la tavola un sottile odor di cera.
Sedevano su pesanti seggiole dalla spalliera alta, mangiavano con pesanti posate d’argento cose buone e pesanti, bevevano vini buoni e pesanti, e dicevano la loro. Ben presto vennero a parlare d’affari, e involontariamente cadevano di più in più nel dialetto, in quel modo di esprimersi comodo e pesante che sembrava unire la brevità commerciale con la trascuratezza signorile, e che qua e là era accentuato da una bonaria autoironia.
Le signore non avevano seguito a lungo la discussione. Madame Kröger teneva banco tra loro, spiegando nei termini più appetitosi il modo migliore di preparare le carpe al vino rosso… «Quando saranno tagliate a pezzi per bene, mia cara, le metterà in casseruola con cipolle, chiodi di garofano e pane biscottato, e poi al fuoco, aggiungendo un po’ di zucchero e un cucchiaio di burro… Ma che non siano lavate, carissima, devono conservare tutto il sangue, per carità…»
Il vecchio Kröger dava la stura alle facezie più amene. Suo figlio, invece, il console Justus, che sedeva di fianco al dottor Grabow, laggiù vicino ai bambini, aveva intrecciato una conversazione scherzosa con la signorina Jungmann; lei stringeva gli occhi e secondo il suo solito teneva dritti il coltello e la forchetta, muovendoli appena in qua e in là. Perfino gli Oervedieck erano divenuti rumorosi e vivaci. La vecchia signora aveva inventato un nuovo vezzeggiativo per il suo sposo: «Tu, agnellino mio!» diceva, e scuoteva la cuffia per la tenerezza.
La conversazione ritornò su di un unico argomento quando Jean Jacques Hoffstede venne a parlare del suo tema favorito, il viaggio in Italia che aveva compiuto quindici anni prima con un ricco parente di Amburgo. Narrò di Venezia, di Roma e del Vesuvio, parlò di Villa Borghese ove il compianto Goethe aveva scritto una parte del suo Faust, si infervorò sulle fontane del rinascimento che donavano refrigerio, sui viali ben potati dov’era così piacevole vagare, e qualcuno ricordò il grande giardino inselvatichito che i Buddenbrook possedevano proprio dietro la porta della rocca…
«Sì, perbacco!» disse il vecchio. «Mi rimprovero sempre di non essermi saputo risolvere, a suo tempo, a farlo sistemare un po’ civilmente! Ci son passato non da molto, è una vergogna, quella foresta vergine! Che graziosa proprietà sarebbe, se l’erba fosse falciata e gli alberi tagliati come si deve a coni o a cubi…»
Il console però protestò con calore.
«Per carità, papà! D’estate mi piace passeggiare in quelle macchie; ma troverei tutto rovinato se la bella, libera natura fosse mutilata così pietosamente…»
«Ma se la libera natura mi appartiene, avrò pure, perbacco, il diritto di aggiustarla a gusto mio…»
«Oh, signor padre, quando me ne sto in mezzo all’erba alta fra i cespugli lussureggianti, mi sembra piuttosto di appartenere io alla natura anziché di avere il minimo diritto su di lei…»
«Christian, non ingozzarti così,» gridò d’improvviso il vecchio Buddenbrook, «Thilda, lei non patisce nulla… è li che manda giù come un trebbiatore, la ragazza…»
E veramente c’era da stupire della capacità di mangiare dimostrata da quella bambina silenziosa e magra, dal viso lungo di vecchietta. Alla domanda se voleva una seconda volta la zuppa, aveva risposto umile e strascicando le parole:
«Siii, preeego!» S’era servita due volte di pesce e di prosciutto, scegliendo, china sul piatto, avveduta e miope, i pezzi più grossi, con lauti mucchi di contorni, e divorava tutto, senza fretta, in silenzio e a grossi bocconi. Alle parole del vecchio padrone di casa si limitò a rispondere strascicata, gentile, stupita e ingenua: «Oh Dio; – ziiio?» Non si lasciava intimorire, mangiava, anche se così non faceva bella figura e se la prendevano in giro, con l’appetito istintivo e predace dei parenti poveri alla tavola gratuita dei ricchi, sorrideva insensibile e si riempiva il piatto di cose buone, paziente, tenace, affamata e magra.
VI
Giunse ora, in due grandi coppe di cristallo, il Plattenpudding, un dolce a strati di amaretti, lamponi, biscotti e spuma d’uova; all’altro capo della tavola incominciarono invece a brillare fiamme, poiché i ragazzi avevano ottenuto il loro dessert preferito, il plumpudding acceso.
«Thomas, figlio mio, sii gentile,» disse Johann Buddenbrook e trasse il grosso mazzo delle chiavi dalla tasca dei pantaloni. «Nella seconda cantina a destra, secondo scaffale, dietro al Bordeaux rosso: due bottiglie, sai?» E Thomas, che era bravo in simili incarichi, corse via e tornò con le bottiglie coperte di polvere e di ragnatele. Ma non appena da quei recipienti modesti sgorgò nei bicchieri piccoli da dessert il succo dolce e dorato del vecchio Malvasia, giunse per il pastore Wunderlich il momento di alzarsi, e, mentre la conversazione taceva, egli levò il bicchiere e cominciò il brindisi con frasi piacevolmente tornite. La testa un po’ inclinata di fianco, un sorriso fine e divertito sul volto bianco, muovendo la mano libera in piccoli e graziosi gesti, parlava col tono discorsivo, sciolto e amabile, che amava mantenere anche dal pulpito… «Orsù, miei ottimi amici, si compiacciano di vuotare con me un calice di questo liquore gentile alla prosperità dei nostri egregi ospiti, nella loro dimora nuova e magnifica, alla prosperità della famiglia Buddenbrook, dei presenti così come degli assenti… evviva!»
«Gli assenti?» pensava il console, mentre si inchinava dinanzi ai bicchieri levati verso di lui. «Con questo vuol dire solo i parenti di Francoforte e forse i Duchamps di Amburgo, oppure il vecchio Wunderlich ha un suo pensiero recondito…?» Si alzò per toccare il bicchiere con suo padre e lo guardò affettuosamente negli occhi.
Ma ora il mediatore Grätjens si tirò su dalla seggiola, e ci volle del tempo; quando poi fu a posto, brindò con la sua voce un po’ stridula alla ditta Johann Buddenbrook e alla sua futura crescita, gloria e prosperità, per l’onore della città.
E Johann Buddenbrook ringraziò per tutte le parole amichevoli, in primo luogo come capo della famiglia e in secondo luogo come titolare anziano della ditta, e mandò Thomas a prendere una terza bottiglia di Malvasia, perché ci si era sbagliati a calcolare che bastavano due.
Parlò anche Lebrecht Kröger. Si permise di restare seduto, perché ciò dava un’impressione di maggiore naturalezza, e si limitò ad una mimica cortese quando rivolse il brindisi alle due signore della casa, Madame Antoinette e la moglie del console.
Ma quando ebbe finito, quando il Plettenpudding fu quasi terminato e il Malvasia agli sgoccioli, si alzò lentamente schiarendosi la gola fra un «ah!» generale, il signor Jean Jacques Hoffstede… i ragazzi, laggiù, batterono addirittura le mani dalla gioia.
«Sì, excusez! non ho potuto far a meno…» disse, toccandosi leggermente il naso puntuto e traendo un foglio dalla tasca della marsina… Nella sala si fece un profondo silenzio.
Il foglio che teneva in mano era squisitamente variopinto, e nell’ovale sul lato esterno, decorato di fiori rossi e da molti rabeschi dorati, egli lesse queste parole:
«In occasione dell’amichevole partecipazione con la famiglia Buddenbrook alla lieta festa di inaugurazione della casa novamente acquistata. Ottobre 1835.»
Poi voltò, e cominciò a leggere con la sua voce già un po’ tremula:
O diletti! Il mio cantare
Vien modesto innanzi a voi,
Ove il ciel volle donare
Lieta stanza ai figli suoi.
Mostri a te dal crine bianco,
Fido amico, il suo valore,
Alla sposa ch’è al tuo fianco,
Ai figlioli cari, amore.
L’opre ardite alle serene
Grazie porgono la mano, -
Venere Anadiomene
ed il fervido Vulcano.
Né mai torbido futuro
Veli la felicità,
Ogni giorno a voi venturo
Specchi d’oggi la beltà.
Già s’allieta a eterno voto
Questa rima, e sol vi chiedo
Che ripeterlo devoto
Possa sempre il vostro aedo.
Bella casa il ciel vi diede,
Con amore la donò.
Sia perenne vostra fede
A colui che la cantò.
Si inchinò, e scrosciò un applauso unanime ed entusiasta.
«Charmant, Hoffstede!» esclamò il vecchio Buddenbrook. «Alla tua salute! Deliziosa, davvero!»
Ma quando la moglie del console brindò col poeta, un lievissimo rossore le colorò l’incarnato delicato, poiché non le era sfuggito il garbato inchino che egli aveva rivolto nella sua direzione alle parole «Venere Anadiomene»…
VII
L’allegria generale aveva ormai raggiunto il culmine, e il signor Köppen sentiva l’impellente bisogno di slacciarsi due bottoni del panciotto; purtroppo non era lecito, perché neppure i signori anziani si prendevano simili libertà. Lebrecht Kröger sedeva al suo posto, dritto ancora come all’inizio del pranzo, il pastore Wunderlich restava bianco e compito, il vecchio Buddenbrook si era, sì, appoggiato un poco all’indietro, ma nondimeno conservava il più squisito decoro, e solo Justus Kröger era visibilmente un po’ brillo.
Dov’era il dottor Grabow? La moglie del console s’alzò senza farsi notare, poiché là in fondo i posti della signorina Jungmann, del dottor Grabow e di Christian erano rimasti vuoti, e dal vestibolo a colonne risuonava una sorta di lamento soffocato. Seguì rapida fuor della sala la cameriera che aveva servito il burro, il formaggio e la frutta, – e là, nella penombra, sul divano circolare intorno alla colonna di mezzo, se ne stava disteso o meglio raccoccolato il piccolo Christian e gemeva piano, da spezzare il cuore.
«Mio Dio, signora!» disse Ida, che gli era accanto con il dottore, «il povero Christian sta molto male…»
«Mi sento male, mamma, mi sento dannatamente male!» si lagnò Christian, girando intorno, inquieto, gli occhi rotondi e infossati sopra il naso troppo grande. Aveva cacciato fuori quel «dannatamente» solo perché sopraffatto dalla disperazione; ma la mamma disse:
«Se adoperiamo parole simili, il buon Dio ci punirà con un male ancora più grande!»
Il dottor Grabow tastò il polso; il suo viso buono sembrava divenuto ancora più lungo e dolce.
«Una piccola indigestione… niente di grave, signora!»disse consolatore. E poi proseguì con il suo lento, pedante tono professionale: «Il meglio sarebbe metterlo a letto… un po’ di polverina, magari una tazzina di camomilla per la traspirazione… E dieta rigorosa, mi raccomando signora! Come ho detto, dieta rigorosa. Un po’ di piccione, un po’ di pane bianco…»
«Non voglio il piccione!» gridò Christian fuori di sé.
«Non voglio mangiare mai più! Sto male, sto dannatamente male!» Quella parola forte sembrava quasi dargli sollievo, tanto era l’entusiasmo con cui la cacciava fuori.
Il dottor Grabow sorrise tra sé, con un sorriso indulgente e quasi un po’ malinconico. Oh, avrebbe mangiato di nuovo, il giovanotto! Sarebbe vissuto come tutti gli altri. Come suo padre, i parenti e gli amici, avrebbe passato i suoi giorni seduto comodo, e quattro volte al dì avrebbe divorato cibi scelti, pesanti e buoni… Be’, con l’aiuto di Dio! Non sarebbe certo stato lui, Friedrich Grabow, che avrebbe fatto mutare le abitudini di quelle famiglie di commercianti, comode e agiate.
Sarebbe venuto quando l’avessero chiamato; e per un giorno o due dieta rigorosa, – un po’ di piccione, una fettina di pane bianco… sì, sì – e in coscienza poteva assicurare che per quella volta non c’era nulla di grave. Per quanto giovane ancora, aveva tenuto nelle sue la mano di non pochi galantuomini che avevano mangiato il loro ultimo cosciotto affumicato, il loro ultimo tacchino ripieno, e poi, chi d’improvviso, inaspettatamente, sulla poltrona dell’ufficio, chi dopo qualche patire nel proprio letto massiccio e antico, avevano reso l’anima a Dio. Un colpo, si diceva allora, una paralisi, una morte improvvisa e inattesa… sì, sì, e lui, Friedrich Grabow, avrebbe potuto enumerare loro tutte le volte in cui «non c’era stato nulla di grave», quando forse non l’avevano neppure chiamato, quando forse soltanto dopo il pranzo, tornati in ufficio, era comparso un piccolo, strano capogiro… Be’, con l’aiuto di Dio! Non sarebbe stato certo lui, Friedrich Grabow, che avrebbe disdegnato i tacchini ripieni. Quel prosciutto impanato con salsa di scalogno, oggi, era squisito, che diavolo!, e poi, quando già mancava il fiato, il Plettenpudding – amaretti, lamponi e spuma d’uova, sì, sì… «Dieta rigorosa, come ho detto, – mi raccomando, signora! Un po’ di piccione, – un po’ di pane bianco…» In: Mann, Thomas, I Buddenbrook” (Buddenbrooks – Verfall einer Familie, 1901), traduzione Furio Jesi e Silvana Speciale Scalia, Einaudi, Torino.