THANKSGIVINING. UNA PUMPKIN PIE PER DIRE GRAZIE .

Quest’oggi voglio offrirvi una fetta di pumpkin pie per dirvi grazie. Questa è la settimana del Thanksgivining, il giorno del Ringraziamento, e anche se non è una festa nostrana; quest’anno ho deciso di farmela un po’ mia e di portarla alla celebrazione. Spero che possiate farla anche po’ vostra e sfornare pumpkin pie ha tutto spiano, che il posto che vi accoglie la sera quando siete più stanchi, più vulnerabili, possa profumare di cannella, chiodi di garofano e anice stellato. Come dicevo, non è una nostra tradizione, ma perché non potrebbe diventarlo, in questa settimana, o tutta la vita: perché in fin dei conti, tutti dobbiamo ringraziare qualcosa. Sempre. O qualcuno, che abbia sporto l’ancora di salvezza in un momento drastico della nostra vita, in cui ci siamo attaccati per poter rivedere la luce del sole, uscire dalla marea che ci ha trascinati in fondo, risalire, respirare ancora a pieni polmoni. Questa vuole essere un ode alla sofferenza. Perché non è vero che la sofferenza è sempre una brutta bestia, una fastidiosa canaglia.

Okay, si in parte è vero. Lo è quando qualcosa, una bolla d’aria ad esempio, blocca la normale respirazione e si ferma in gola e stringe, stringe come un fastidioso nodo.  E lì impazzisci, perché non sai cosa fare, non sai come andrà a finire, quando potrà mai passare. E questo ti manda fuori di testa, perché chi non vorrebbe sapere tutto, predire il futuro, conoscere i prossimi passi che si devono compiere. Ma poi, pensiamoci bene, quando quest’attimo di smarrimento passa beh, noi qualcosa impariamo da questa brutta nemica; tanto che  impariamo ad accettarla; a metabolizzare che tutte le lacrime versate avevano pure loro uno scopo. E così, adagio adagio, impariamo a farcela amica e a dirgli grazie. Perché si sa, si impara più da una brutta esperienza che con un milione di cose belle.

Così, oggi io mi propongo di ringraziare quel qualcosa che ci porta oltre il brutto tempo, quel qualcosa che ci aiuta a sconfiggere le onde ed andare avanti. Ognuno noi, in cuor suo, ha qualche esperienza che ha portato un velo di sofferenza. E tutti noi, siamo riusciti a sconfiggerla grazie a quel plus che ci è capitato all’improvviso, senza che chiedessimo nulla, un semplice noioso pomeriggio; o un qualcosa che è stato sempre sotto i nostri occhi, ma che non abbiamo mai notato e ora tolti tutti i veli che ci oscuravano la vista, scopriamo tutto lo scintillio, tutta la lucentezza che ricopre la superficie; ma soprattutto sappiamo essere in grado di scoprire la bontà nascosta, quel cuore morbido, di cui proprio ora abbiamo bisogno.
Non mi aspetto che siate pronti e trepidanti a condividere con me la vostra sofferenza o  la vostra cura, ne sarei ben lieta se questo accadesse, ma di certo non vi dovete trovare in obbligo, a qual ora che vi troviate a leggere queste righe.
Sono qui perché ho bisogno di potervi raccontare la mia.  Ho pianto, ho metabolizzato e solo dopo quest’ultimo passaggio posso dire che per me è stata una benedizione, una cura che sono pronta a condividere. La scrittura. Io che, se vado indietro nel tempo, quasi mi viene da ridere, io che la odiavo con tutta me stessa. Io che detestavo, ogni singola volta che la maestra in classe  voleva che descrivessimo, raccontassimo un qualsiasi cosa. Io che non capivo come poteva essere tanto affascinante mettersi giù, con la testa china, a scrivere e descrivere scene vere o di fantasia. Io che non ero abituata a lottare, lasciavo via tutto dopo qualche riga, perché tanto chissenefrega della scrittura. Di parole, non si vive, pensavo. E’ vero, magari di parole non si vive e mai succederà, ma a 10 anni ancora non sapevo che le parole però aiutano. A chi le fabbrica,  a chi le legge.

Ci fu un solo momento, un unico ricordo che ogni tanto torna a galla nella memoria, di quando sempre a 10 anni mi compiacei di lei e provai a farmela amica. Quando la cara maestra Cinzia, ci diede un bellissimo compito a casa, che l’indomani sarebbe stato valutato con voto: descrivi gli odori e gli aromi della tua cucina.  Sembra un compito banale, ma  alla fine dei conti ognuno di noi ha quelle sue abitudini  di cibo o altro, che impregnano un po’ i muri delle case, che impregnano un po’ noi. Beh, quel pomeriggio, dopo una crisi isterica (tanto per gradire) capii per la prima volta che per scrivere ci vuole ispirazione; dobbiamo essere ispirati. Quel pomeriggio, mi chiusi da sola dentro quelle quattro mura, feci partire l’immaginazione: una mamma che invece di stare a lavoro, si trovava per un pomeriggio con la propria bimba; che l’autunno portava odore di castagne e arancia in ogni dove, che il caffè a fatica borbottava all’interno della moka e che non aspettava altro il candido abbraccio del latte in accompagnamento.  Dieci. Il voto fu questo. Fui ripagata, con tanto di elogi della maestra, il compito più bello lo avevo scritto io. Mi commossi e sperai che dopotutto, la scrittura non poteva essere una brutta compagna. Il resto furono medie e superiori, passate con una sufficienza minima la mattina, e una gran fame di testi da leggere la sera. Come ho detto prima, per scrivere bisogna essere ispirati. Prima legge.
Per scrivere, si devono provare emozioni; seconda legge secondo Federica. Questo lo scoprii anni più tardi. Qualche mese fa. Quando abbandonai tutte le mie passioni, quando lasciai fuggire via un po’ me stessa, mi lasciai scivolare giù trai chili persi, tra le lacrime amare. L’unica cosa che mi rimase accanto fu proprio lei: la scrittura. Seppe capirmi, ascoltarmi, comprendere. Mi fece sfogare, a gran voce, mi diede tutto lo spazio che gli altri chiudevano a me. Lei mi accolse, come una seconda casa, quando quelle braccia decisero di non accogliermi più.
Un po’ di tempo fa lessi il blog di due famose blogger, che io amo e stimo, dove descrivevano filo e per segno il loro amore per la cucina e quanto le avesse portate in salvo in un momento strano, stanco, doloroso della propria vita. In quel momento in cui ti guardi allo specchio ogni mattina e non ti riconosci più. Non sai più chi è quella ragazza, quei due occhi che ti guardano cosa vogliono esprimere. E per quanto io amassi il cibo, l’atto di cucinare in se’, non sarei realistica se dicessi che mi abbia in qualche modo “salvato”. Per me la cucina è il conforto per eccellenza. Quella cosa che c’è stata sempre, da quando a 10 anni ho scritto tutte le sfumature dell’aroma del caffè; o da quando, sempre da bambina, mi divertivo la domenica a mettere le mani in pasta con mamma e nonna. La cucina è quella passione che sai –e di questo sono certa- ti scorrerà sempre nelle vene, per quanti bisticci ci possano essere tra me e lei. Lei tornerà sempre da me, io tornerò sempre da lei. E’ una delle poche certezze della mia vita. Come quella domenica di inizio estate, con una fetta di tarte citron meringue.

Ed eccomi. Mi sono messa a nudo. Forse per la prima volta in tutta la mia vita. O almeno da quando ho il blog. E ho deciso proprio di farlo tra queste pagine, in un mese che in ogni anno si scopre essere il più impegnativo ed emozionante.
Virtualmente vi offro il mio appoggio e una fetta di pumpkin pie per dire grazie.

A voi, che sempre venite a leggermi tra queste righe confuse e piene di emozioni.
Alle vicende personali, quelle che ti fanno strappare qualche lacrime ma anche crescere; e questo è molto importante alla fine dei conti.
Alle ancore di salvezze che ci aiutano sempre, per non farci perdere del tutto.
Al viaggio di ritorno verso la riva, verso noi stesse.
A ognuno di noi. Perché possiamo attraversare tutte le sfide, basta solo crederci.

La vostra Fede. 

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