Solo in questa stagione capita di trovare in vendita un tipo di uva del tutto particolare che si chiama “uva fragola” o “uva Isabella”, che ha una storia molto particolare della quale parlo dopo la ricetta.
La marmellata di questo frutto, particolare, molto profumata e un po’ asprigna, ha un metodo di preparazione abbastanza strano, che non funziona assolutamente –né ha senso– con uve di altro tipo: non provateci nemmeno! Questa versione, a differenza di quella che si trova in altri siti (tipo ZalloGiafferano, tanto per cambiare) non ha pectina aggiunta: l’uva fragola ne contiene già moltissima, al punto che è un problema, come spiego nelle note.
Negli Stati Uniti, la marmellata di una varietà simile all’uva fragola (Concord grape) si trova in vendita in tutti i negozi ed è la più classica da servire con pane e burro di arachidi.
- Uva fragola o altra varietà simile: un chilo contando solo gli acini; compratene un chilo e mezzo per stare al sicuro, dato che quasi certamente alcuni li dovrete scartare
- Zucchero bianco: 300 grammi
- Acqua, sale
Ricetta per circa 600 grammi di marmellata. Un’accortezza: le bucce di uva fragola contengono talmente tanto pigmento viola che se vi macchiate i vestiti avrete seri problemi a pulirli, almeno senza ricorrere alla candeggina. Indossate un grembiule e fate attenzione.
Per prima cosa, staccate gli acini dai grappoli e scartate tutti quelli rovinati o ammuffiti. A qualcuno spiacerà sapere che non è molto improbabile trovarci ragni o ragnatele. Lavateli bene.
I chicchi di uva fragola hanno una parte di polpa molle e dolce subito sotto alla buccia e una più soda e aspra attorno ai semi. A differenza che nell’uva comune, queste due parti si separano molto facilmente. Per preparare la marmellata, schiacciate tra le dita ogni chicco e fate “sgusciare” la parte centrale dell’acino in una pentola, conservando a parte la buccia. L’operazione è un po’ noiosa, ma per niente difficile; la parte interna dei frutticini è di un verde-giallo pallido — il colore magenta intenso sarà dato poi dalle bucce.
Aggiungete ai chicci “sgusciati” un bicchiere circa d’acqua e mettete sul fuoco a bollire per 10–15 minuti o fino a che non si sono spappolati. Passate poi il composto per un colino, in modo da separare i semi (più grossi che nell’uva comune) e cercate di recuperare tutta la polpa. Il sistema più rapido è quello di usare il fondo di un mestolo per schiacciare gli acini sul colino. Se ne fate veramente tanta, conviene scomodare per questa operazione un passaverdura. Scartate i semi.
Alla polpa passata aggiungete lo zucchero, un pizzichino di sale e le bucce. Rimettete sul fuoco, portate a bollore e fate sobbollire a fuoco basso, col coperchio, per una decina di minuti.
Lasciate raffreddare la marmellata fino a che non sia tiepida e frullatela. Il mio consiglio è di utilizzare, se l’avete, un frullatore a bicchiere e di farlo andare più di quanto pensereste fosse necessario. Come sempre, un frullatore a immersione non dà risultati altrettanto lisci. I pezzetti di buccia che rimanessero si arrotolerebbero su sé stessi come capita alle bucce di pomodoro e peperone e sono molto fastidiosi nel prodotto finito.
Rimettete a cuocere fate andare senza coperchio, a fuoco abbastanza basso e mescolando, fino al raggiungimento della consistenza giusta. Quando la marmellata è pronta, l’ebollizione rallenta improvvisamente e sulla superficie sembra formarsi una sorta di pelle più densa. Chi è meno esperto può affidarsi alla prova del piattino: prima di iniziare la cottura, si mette un piattino in congelatore e, quando la marmellata dà segno di essersi un po’ addensata, se ne versano su questo alcune gocce. Se, inclinandolo, il composto non scorre, la marmellata è pronta. L’uva contiene molto fruttosio, perciò non occorre più zucchero del poco che indico qui. Tra le conseguenze di questa anomala composizione c’è il fatto che non si può fidarsi del termometro per riconoscere il giusto punto di cottura, come si fa spesso in altri casi. Se voleste comunque un numero, da due prove che ho fatto la marmellata mi sembra cotta intorno a 102°C, mentre ai canonici 105–106°C diventa una gelatina durissima, che si può tagliare col coltello in cubi.
Versate la marmellata ancora bollente in vasetti sterilizzati, tappateli e rovesciateli. Rigirateli dopo qualche minuto. Questa operazione sterilizza il coperchio. Se si crea il vuoto, la marmellata ancora da aprire si può benissimo conservare fuori dal frigorifero, al buio, anche per molti mesi.
Qualche tempo dopo la preparazione, nella marmellata si formeranno quasi certamente dei piccoli cristalli, che daranno sotto ai denti la sensazione di masticare dello zucchero finissimo. Non so di per certo cosa siano, ma certamente non zucchero – il fruttosio è difficilissimo da separare dall’acqua. Probabilmente si tratta di cristalli di acido tartarico o suoi sali, che sono del tutto innocui e che spesso precipitano anche nel vino, specie nei bianchi (i cosiddetti “diamanti del vino”). Non preoccupatevi per questo: sono talmente fini che nessuno me l’ha mai fatto notare.
Veniamo a due chiacchiere su questo tipo di uva dai chicchi tondi, pruinosi, e dal profumo inconfondibile. Si tratta del frutto di Vitis labrusca, una specie nordamericana affine alla vite europea (Vitis vinifera), dalla quale vengono tutte le varietà da vino e le comuni uve da tavola. Niente a che fare col lambrusco: la somiglianza tra i nomi è una coincidenza. Fu intodotta su larga scala nel nostro continente a metà dell’Ottocento in quanto apparentemente più resistente alla fillossera, una specie di afide parassita delle vigne che in quel periodo metteva seriamente in crisi la viticoltura nostrana. In realtà, è proprio con l’introduzione delle viti americane (questa e la Vitis riparia) che la fillossera si è diffusa al di qua dell’Atlantico.
Dalla vite americana e dai suoi ibridi con l’europea si producevano numerosi vini, tra i quali qui in Veneto sono rimasti quasi leggendari il crinto (o clinto) e il grintón, entrambi i nomi derivati dalla varietà “Clinton” di uva americana. Al giorno d’oggi, i fermentati di uva americana non possono essere messi in commercio da noi col nome di “vino”, stando che la legislazione europea ed italiana definiscono esplicitamente “vino” come il prodotto della fermentazione alcolica del succo della sola Vitis vinifera. Ciò non toglie che, a livello locale e familiare, alcuni di questi siano ancora preparati ed apprezzati; il comune di Villaverla (VI) celebra addirittura un’annuale sagra del Clinto. I vini di uva americana hanno spesso una gradazione alcolica molto bassa, un sapore dolce ma tannico, e si conservano solo per poco tempo. A seconda delle lavorazioni, alcuni sono rosso chiaro, mentre altri sembrano quasi un inchiostro porpora acceso, a volte talmente intenso da macchiare letteralmente il bicchiere. Proprio dall’uva fragola (o Isabella), una varietà di questa specie, si ricavava il vero vino fragolino, mentre i prodotti oggi in commercio da noi con questo nome sono di solito bevande a base di comune vino rosso aromatizzato. Il fragolino vero si può oggi comprare regolarmente solo fuori dall’UE oppure nell’Austria orientale, col nome di Uhudler, dove gode di una speciale eccezione.
Ciò che più caratterizza l’uva americana è senza dubbio l’inconfondibile, intensissimo profumo. Gli enologi lo chiamano “volpino” (o foxy, in inglese) e lo considerano un difetto inaccettabile, segno certo della contraffazione del vino con gli acini della proibitissima vite americana. Caso raro in natura, l’odore è dovuto sostanzialmente ad una singola sostanza: l’antranilato di metile. Questo semplice estere è facile da sintetizzare chimicamente ed è un aroma assai impiegato in caramelle alla frutta, gomme, bevande. Ad alte concentrazioni dà un sapore riconoscibilissimo di uva fragola, che viene di solito commercializzato semplicemente come “gusto uva”. Fateci caso: tutte le caramelle e le bibite all’uva sanno precisamente di uva fragola, non di uva comune. Nella marmellata il sapore rimane, ma meno di quanto potreste pensare: molto se ne va in cottura.
Come ho scritto nella ricetta, l’uva fragola contiene molta pectina, specie nella buccia e nei raspi, a differenza dell’uva comune. Questo permette alla marmellata di gelificare facilmente da sé, senza pectina aggiunta, ma nella preparazione dei vini è un problema: la fermentazione della pectina può portare alla formazione di quantità inaccettabili di metanolo, un alcol molto velenoso che può produrre danni neurologici, cecità, e perfino la morte, se consumato in grandi quantità e/o regolarmente. Per questa ragione, sarebbe prudente filtrare il mosto di uva americana prima della fermentazione, in modo da rimuovere la fonte di pectina. Francamente, dubito che i miei nonni si prendessero la briga. La particolare attenzione richiesta mi sembrerebbe già in sé un buon motivo per togliere il crinto dal limbo legale nel quale si trova, né permesso, né mai veramente del tutto proibito.