Bruxelles è città che ti sorprende. Nel senso che non è sciantosa come Parigi, non ti richiama con ammiccamenti fashion come Londra, non evoca, non suggerisce, non promette. Poi ci arrivi, una breve fuga nel weekend, e ti incolla con le spalle al muro, che non puoi che dire, fra te e te o magari anche ad alta voce (tanto nessuno ti capirà): “Cavolo! Ma come mai non c’ero mai venuta?”.
Ma più che porti domande, ti viene voglia di girare fare guardare. E allora cominci con qualche museo di rito, per proseguire con le strade e gli ampi viali pieni di negozi assai trendy, i palazzi, reali o meno, ma non per questo meno belli; poi le birrerie: come non fermarsi a La Morte Subite o a Moeder Lambic? E fra un assaggio di birra, qualche cartoccio di frites, le moules che non possono mancare, il museo della cioccolata e le pralinerie il tempo vola.
Una cena fuori dai classici giri turistici a Au Repos de la Montagne, un po’ bistro e un po’ graziosa osteria, un pranzo assai divertente a Le Roy d’Espagne, ombrelloni mega hamburger e patatine con lo sguardo sulla splendida Place Royale.
Arriva veloce il lunedì mattina e devi ripartire, ma per fortuna un amico (e bravo Gualtiero Spotti!) a cui hai chiesto “dove non posso mancare di mangiare a Bruxelles?” ti suggerisce un’ultima tappa gastronomique: “Humphrey. È lì che devi andare”. In cammino, quindi, percorrendo un quartiere tutto uffici e grattacieli, vetrate e marciapiedi curati, giardinetti e poco traffico. Ci troviamo ai piedi della cattedrale, in pieno centro.
Un edificio come altri, un’insegna: PIAS. Eccoci arrivati a destinazione. Humprey, che ha aperto a inizio 2016, è all’interno di una casa discografica indipendente, PIAS appunto, che sta per “Play It Again Sam”, frase tratta dal celeberrimo film Casablanca di cui protagonista maschile, accanto a una superba Ingrig Bergman, è proprio Humprey Bogart.
Ci accomodiamo nel cortiletto interno, il tempo è mite, soleggiato, si indulge volentieri all’aperto. Dentro, arredamento spartano, legno, tavoli lunghi e qualche tavolino da due, un bancone, griglia a vista. Tutto molto ordinato, curato ma messo lì come per caso. Cool.
Lo chef è Yannick Van Aeken, passato, non per breve stage settimanale ma per alcuni anni di lavoro, da Noma come curriculum comanda, giovane, grintoso, ne sentiremo parlare ancora.
Il menu è diviso in sezioni ed è rigorosamente previsto l’assaggio condiviso (data anche la porzione, decisamente da tapas più che da main dish). Potrete così scegliere se gustarvi un piatto da Petit Humphrey, la parte raw, dedicata a cibo crudo, o Humphrey light, per lo più piatti vegetali di stagione rivisitati in chiave esotica. O anche buttarvi sull’Umami, elenco di pietanze che, come promette il nome, ispireranno il vostro 5° senso trasportandovi in Asia. E infine gli special, i grandi classici di Humphrey, da due persone a meno che non abbiate davvero tanta fame.
A questo punto vi chiederete per che cosa abbiamo optato. Punto fermo la sharing food experience, obbedienti e gioiosi ci adeguiamo. Ad aprire Fish Skin, pelle di pesce fritta, arricchita da una salsina di agrumi speziata (non andate da Humphrey se non amate piccante e spezie esotiche!).
Quindi un Black Cod al burro e salsa di spinaci, i Jerusalem artichoke (ossia i topinambur) deliziosamente piastrati e accompagnati da coriandolo fresco, che compare in molti dei piatti a dire la sua, e Polpettine di pesce con maionese vegetale.
Ci alziamo più che soddisfatti, il tempo di un ultimo giro e poi diretti in aeroporto.
Caro Belgio, torno molto presto.
Amelia De Francesco