Un palazzo nobile, appartenuto alla famiglia Spinola, ma non solo, un poco fuori dal classico percorso museale indicato da tutte le guide turistiche, che racchiude tesori nascosti.
Edificato nel 1593 per volere di Giacomo Grimaldi, nei secoli fu l’abitazione di molte famiglie nobili genovesi.
Qui è passata tutta la borghesia più altolocata della città, hanno ballato, danzato, cenato e gozzovigliato fino al 1958 quando gli ultimi eredi Franco e Paolo Spinola hanno voluto donare questo gioiello, assieme ai supellettili, gli arredi, la quadreria, gli argenti e i libri allo Stato.
Con un unico vincolo, quello di mantenere l’aspetto di antica dimora nobiliare a testimonianza della civiltà dell’abitare.
E da qui voglio partire per raccontarvi una piccola perla costudita nella Galleria Nazionale di Palazzo Spinola.
Al piano mezzanino si trova una delle più rare testimonianze di cucina ottocentesca.
Cristallizzata come se il tempo non fosse mai trascorso.
Sul grande tavolo di legno, che troneggia nel mezzo dell’ambiente, sono esposte antiche copie di trattati di cucina, tra cui l’Artusi e i conti di cucina, debitamente compilati dal cuoco, a testimonianza dei regali banchetti che in questo luogo venivano preparati.
E così leggendoli, sappiamo che il cuoco Giuseppe Macchiavello il 24 giugno 1813 spese la stratosferica cifra di 464 lire per allestire il banchetto nuziale di Giulia Spinola, sorella di Giacomo, l’allora proprietario del palazzo, nel quale vennero servite ben 36 pietanze.
Oppure, un altro cuoco, per una cena invernale di qualche anno dopo, l’8 febbraio 1826 portò in tavola come primo piatto i principi della cucina genovese: i ravioli in brodo, seguiti da pasticcio di tordi, grigliada di cotolette, cappone bollito, rosto di pernice, e successivamente il pesce: ostriche e datteri di mare.
Come contorno, furono servite le trifole bianche, incursione francese dei tartufi nella cucina italiana, ma il cuoco probabilmente preferì quelli bianchi nostrani e pregiati di Alba.
Chiudono definitivamente il pasto, gelatina al Rhum e canestrelli.
Ma passiamo ai pezzi forti, il ronfò e la caldaia, dove ovviamente questi piatti venivano preparati.
Innanzitutto abbiamo davanti a noi un esempio spettacolare di cucina in muratura (detta ronfò in genovese) della quale vi ho già parlato nel post su Casa Valéry. Qui troviamo tutti gli elementi intatti, il forno a legna, la grixella, la griglia, sotto la quale ardevano le braci vive, pentole di terracotta, e in basso gli sportelli, che servivano per alimentare il fuoco con il carbone.
Da notare, la piastrellatura dei bordi in ceramica bianca (ciapelle) , una modenizzazione igienica per quell’epoca. Consentiva la pulizia della cucina in un batter d’occhio, infatti tutto quel carbone creava molta càize (fuliggine) e spesso questi ambienti risultavano anneriti.
In questo particolare si vede la grixella, aperta per esposizione, con sopra appeso una classica pügnatta de rammo, pentola di rame, appesa da una cadenha, catena, in modo che pietanza in essa contenuta non pigli o scotizzo, a diretto contatto con il fuoco.
O scotizzo, termine intraducibile della cucina genovese, sta a indicare quando, per esempio il minestrone, si attacca sul fondo e prende quel gusto di rifritto, di bruciaticcio, che, in questo caso non guasta, ma in altre pietanze potrebbe dar fastidio.
In questo particolare si vede la grixella, aperta per esposizione, con sopra appeso una classica pügnatta de rammo, pentola di rame, appesa da una cadenha, catena, in modo che pietanza in essa contenuta non pigli o scotizzo, a diretto contatto con il fuoco.
O scotizzo, termine intraducibile della cucina genovese, sta a indicare quando, per esempio il minestrone, si attacca sul fondo e prende quel gusto di rifritto, di bruciaticcio, che, in questo caso non guasta, ma in altre pietanze potrebbe dar fastidio.
Accanto una selezione di utensili in ferro fanno bella mostra di se.
Da destra sono appesi:
una paletta o paetta, per raccogliere le braci,
un’altro utensile che serviva per tirare su i cerchi roventi della caldaia, rampin o feru da stiva,
e diverse misure di cassa, il mestolo di ferro,
ma pure una cassarea, la schiumarola.
Altra particolarà è la caldaia: un sistema innovativo di tubi, tuttora visibili, forniva ai lavandini adiacenti l’acqua calda. Veniva inoltre anch’essa utilizzata per cucinare, grazie al suo piano superiore, sempre caldo.
A lato è presente un grande piano di marmo (a ciappa do lavello), tipico della cucina genovese, dove sono inclusi due grandi lavelli, lavandini, che io immagino affollato di povere sguattere, serve, intente ad arrüxentà (risciacquare) i piatti sporchi dei suntuosi banchetti nobiliari, ma almeno con l’acqua calda, proveniente dalla caldaia, e che usciva da questi preziosi bronzin, rubinetti, di ottone.
E attorno, completano la scena, bottiggie, bottiglie, arbanelle, vasi, pugnatte, pentole tutte rigorosamente di terracotta, che servivano sia per la cottura che per la conservazione degli alimenti.
Ma vedete nell’ombra quella ruota, di ferro sulla destra?
Stupidamente ho dimenticato di fotografarla meglio, sappiate che era un sistema innovativo di montacarichi, per far arrivare le vivande calde nelle sale da pranzo nei piani superiori e che nel 1915 Ugo Spinola, padre di Paolo e Franco i due donatori, lo fece mecanizzare elettricamente creando un sistema altamente tecnologico per l’epoca.
In una stanzetta attigua, si trovano un piccolo ronfò e un lavandino.
Pure un tavolo per impastare dove troneggiano gli strumenti tipici di quest’arte: u canello, il mattarello e u siasso, il setaccio usato per separare a fënha, la farina, dalle impurità.
Questa probabilmete, ma non è dato sapere, era una cucina per il personale di servizio. Oppure è stata successivamente spostata qua, per liberare altre sale e renderle più accoglienti.
Pure un tavolo per impastare dove troneggiano gli strumenti tipici di quest’arte: u canello, il mattarello e u siasso, il setaccio usato per separare a fënha, la farina, dalle impurità.
Questa probabilmete, ma non è dato sapere, era una cucina per il personale di servizio. Oppure è stata successivamente spostata qua, per liberare altre sale e renderle più accoglienti.
Un piccolo anedoto, pare che fino al XVII secolo, e forse anche oltre, sguatteri e servi, dormissero tra le mura di questa cucina, dove le braci dei ronfò che si spegnevano riscaldavono l’ambiente ed era così più facile superare le rigide nottate invernali.
Eccoci arrivati alla fine del racconto.
Mi preme ringraziare il personale di Palazzo Spinola, che gentilmente si è offerto nel guidarci tra le sue sale.
In Piazza di Pellicceria 1, tutti i giorni dalle 8.30 alle 18.00 (lunedì escluso) i gentili “custodi” di quest’antica dimora, vi condurranno tra le lussuose stanze di questo palazzo facendovene innamorare.
Indirizzo Utile:
Galleria Nazionale di Palazzo Spinola
Piazza Di Pellicceria 1
16123 Genova
tel. 010 2705300
P.S. Dato che il genovese è una lingua che cambia da paese a paese, e spesso viene confusa con il ligure, mi preme specificare, che tutti i termini elencati in questo post sono tratti da:
- Vocabolario Domestico GENOVESE ITALIANO -
di Padre Angelo Paganini
di Padre Angelo Paganini
scritto nel 1857
ristampato da De Ferrari Editore nell’anno 2000 con prefazione e appendice di Vito Elio Petrucci.
Per le date e le notizie storiche altra mia fonte preziosa è stata:
Genovesi a tavola nell’Ottocento
I Raggi e gli Spinola
a cura di Farida Simonetti
Sagep Editore, 2004
Quindi, tutti i commenti sono ben accetti, specialmente se volete proporre nuovi termini, in base alla vostra provienienza… ma non mi venite a fare predicozzi su come sono scritte le parole zeneize perchè son tratte da fonti ben attendibili e confutabili.