Non è detto che il sole sia la migliore condizione per ammirare un territorio. Nel mio viaggio di tre giorni tra le colline del Monferrato Astigiano e Alessandrino non sono stata sicuramente molto fortunata dal punto di vista climatico: mi aspettavo sole, luce e tepore, e invece ho avuto per lo più nebbia, pioggia e vento. Ma ho fatto di necessità virtù ed ho imparato ad apprezzare le ombre e le nuvole che, alla fine, hanno dato un’aria struggente e romantica a questi paesaggi unici, che sono diventati nel 2014 patrimonio Unesco. In queste terre, custodi di prodotti di eccellenza, come il Brachetto d’Acqui Docg o la robiola di Roccaverano Dop, il mese di marzo è un periodo di bassa stagione turistica. Per me, che non amo i luoghi affollati, che preferisco giorni tranquilli, una occasione perfetta per costruire un itinerario tra buon cibo, ottimo vino, cultura e paesaggi meravigliosi. L’itinerario che vi propongo parte da Acqui Terme e tocca Canelli, Roccaverano, le Cattedrali sotterranee dello spumante, le cantine che producono Brachetto di Acqui Docg e non solo e tanti ristoranti in cui gustare l’ottima cucina piemontese.
ACQUI TERME – Il mio itinerario parte proprio dal cuore della Val Bormida, da Acqui Terme. Città antica, di origini romane, con i resti di un acquedotto all’altezza del Ponte Carlo Alberto sul fiume Bormida e conosciuta da secoli per le inesauribili risorse termali, Acqui Terme è un borgo dall’impianto medioevale, che nel suo centro storico custodisce una cattedrale (dedicata a Santa Maria Assunta) e il Castello dei Paleologi (noto fin dall’anno Mille), oggi sede del Museo archeologico. Iniziate la giornata con una passeggiata tra le strette vie in ciottoli e sampietrini e ammirare lungo la strada alcuni dei palazzi più belli della città, tra cui Casa Lingeri (XVIII secolo), Casa della Porta (XV secolo), Casa Cazzulini (XV secolo) e l’ex chiesa e convento di Santa Caterina (XVI secolo). Ovviamente, ad Acqui si viene per immergersi nelle acque termali, sia quelle del Grand Hotel liberty nella centrale piazza Italia, sia in quelle della zona dei Bagni. Acque salutari (salso-bromo-iodiche) che sgorgano soprattutto dalla fontana della Bollente, a una temperatura di 75 gradi (non toccatela in uno slancio fanciullesco o, come ho fatto io, vi scotterete). Un luogo magico, che vi consiglio di visitare la notte, in silenzio.
LA TRADIZIONE ENOGASTRONOMICA DI ACQUI: Acqui e la Val Bormida sono luoghi di grandi tradizioni enogastronomiche. La vicinanza con il confine ligure e gli influssi di questa cucina si notano nelle preparazioni di panetteria, che vedono sempre presente la farinata di ceci; oppure nell’usanza di cucinare il coniglio con le olive taggiasche ma anche nell’abitudine di preparare abitualmente il baccalà, nonostante il mare sia lontano almeno cento chilometri. Della tradizione più squisitamente piemontese Acqui vanta la norcineria, i prodotti caseari, come le formaggette caprine, l’uso delle nocciole (come quelle usate per preparare la tradizionale torta di nocciole), ovviamente i tartufi (che qui, come ad Alba, nelle Langhe, si trovano in abbondanza). In campo enologico, Acqui è famosa nel mondo per il suo Brachetto, un vino prodotto con l’omonimo vitigno autoctono a bacca rossa. Il più famoso è il Brachetto di Acqui Docg, fil rouge del mio viaggio, tutelato dal Consorzio: un vino dal colore rosso rubino, con profumi di rosa, prodotto nella versione dolce e spumante, che dalla vendemmia del 2018 potrà essere prodotto anche nella versione secca sia ferma sia spumante.
COSA COMPRARE – Tra le numerose prelibatezze di Acqui Terme, vi consiglio di portare a casa almeno mezzo chilo di ravioli del plin, che potete comprare in uno dei tanti pastifici (come El Canton d’la Posta fresca, in Piazza San Guido), qualche robiola di Roccaverano in diverse stagionature; gli amaretti di Acqui, che troverete in tutte le pasticcerie della città, i cardi gobbi di Nizza Monferrato, la torta alle nocciole e le nocciole del Piemonte Igp. Gli amanti dei formaggi e dei salumi potranno sbizzarrirsi con tome piemontesi, formaggi stagionati nel fieno o nelle vinacce e l’ottima norcineria locale. Da gustara sul posto calda, invece, la farinata di ceci, conosciuta qui per le antiche influenze che Genova ha avuto su questi territori. Ovviamente, non dimenticate di portare a casa qualche bottiglia di buon vino, a partire dal Brachetto d’Acqui Docg, ma anche di Dolcetto d’Acqui, passando per il Moscato di Asti, la Barbera, il Cortese, il Freisa.
CANTINA VIOTTI – Guido Viotti è inarrestabile. Ex insegnante e viticoltore alla settima generazione, con la passione per la cucina, ama parlare dei suoi vini attorno a una tavola imbandita oppure passeggiando tra i filari dei suoi vigneti a 300 metri di altezza nel comune di Castel Rocchero. Al suo fianco nella Viotti Vini c’è la figlia Bianca, giovane e preparata. Discendente di Giovanni Battista Viotti, musicista vercellese dell’Ottocento a cui si attribuisce l’inno della Marsigliese, Guido ha una grande attenzione per le piante antiche, che ama recuperare una per una nel giardino attorno casa: mele rosè, mele vinaccia, ippocastano, ciliegio durone. Tutto diviene materia prima per le sue preparazioni. Con le mele, le prugne, la frutta secca e il vino, Guido fa la mostarda, di cui è gelosissimo. Cultore delle tradizioni piemontesi, a tratti nostalgico dei tempi passati, racconta spesso delle tradizioni locali che si vanno perdendo con il passare delle generazioni. Ma nel suo cassetto c’è sempre l’idea di creare un museo delle antiche tecniche di coltivazione delle vigne.
La Viotti Vini è un’azienda piccola, di 16 ettari (35 mila bottiglie) in cui oltre al Brachetto d’Acqui si produce Moscato, Barbera e Albarossa, ma anche Pinot, Cortese e Dolcetto. I vigneti beneficiano in queste alture del vento che proviene dal mare della vicina Liguria. Non si fa il biologico, ma da 20 anni non si usano diserbanti e da 12 anni nessun concime chimico, solo il letame. Dal 1978, la Viotti Vini coltiva Brachetto. Le prime bottiglie risalgono al 1982. “Autignan” è una delle etichette a cui tiene maggiormente: un brachetto fermo (secco) che, dopo la modifica del disciplinare del marzo 2017, potrà uscire dall’ambito dei vini da tavola e dal 2018 fregiarsi della Docg. Le etichette delle bottiglie, molto belle, sono state realizzate da un amico e disegnatore friulano, Walter Pozzebon. Guido ci saluta non prima di averci mostrato uno dei suoi pezzi forti: una Duja (recipiente per il vino) di famiglia, in puro castagno, di oltre duecento anni, completamente restaurata.
DOVE MANGIARE – Ad Acqui Terme è quasi obbligatorio provare la cucina del ristorante I Caffi: è un ristorante stellato, che propone una cucina molto fedele alla tradizione gastronomica locale. Se però non volete affrontare una cena impegnativa, potete fermarvi a mangiare alla brasserie o semplicemente prendere un gustoso aperitivo al cocktail bar. I titolari, infatti, sanno al contempo cogliere le mode del momento e restare saldamente ancorati ai fondamentali della cucina piemontese. Se volete, cliccando qui potete leggere la recensione completa del locale.
CANELLI – Canelli, per il vino, è la silicon valley del Piemonte. Questa cittadina ha rappresentato la storia del settore e ne rappresenta ancora oggi una fetta importante, data la presenza di cantine storiche e decine di aziende che lavorano nelle tecnologie applicate al vino. La città si trova tra Langhe e Monferrato ed è divisa tra città bassa, il ‘borgo’ e città alta, ‘Villanuova’: nel borgo, più moderno, si trovano le sedi di importanti cantine e le famose cattedrali sotterranee patrimonio Unesco. Arrampicata su una collina si trova la parte più antica di Canelli, dominata dal Castello Gancia. Vi suggerisco di percorrere a piedi la Sternia, antica strada di origine medioevale, costruita con pietre di fiume (attenzione a non scivolare), che dal borgo porta alla collina: giunti nella piazza, potrete ammirare la Piazza San Leonardo con la sua omonima chiesa barocca e, soprattutto, la vista sulla cittadina sottostante, con i suoi tanti tetti di tegole rosse. Del barocco astigiano si conservano a Canelli altri begli esempi, tra cui la chiesetta di San Rocco.
Il paese di Canelli già nel XV secolo era noto come zona di produzione del vino. Nel corso dei secoli diventò una zona doganale, al confine tra il Regno dei Savoia e il potente Ducato di Mantova. E nel tufo che compone gran parte del sottosuolo furono scavate gallerie e grotte usate come magazzini per le merci che transitavano dalla Savoia verso il Ducato. Queste strutture sopravvissero agli eventi storici, diventando depositi di vino e arrivando così intatte fino ai giorni nostri. Oggi a Canelli ci sono 20 km di gallerie. Tre di queste appartengono alla Cantina Gancia.
GANCIA – Proprio a Canelli Camillo Gancia, dopo un viaggio in Francia e dopo le prime sperimentazioni nella sua Chivasso (Torino), decisa di trasferire la produzione e, nel 1865, fu a Canelli che vide la luce il primo spumante metodo classico italiano. Era fatto con il vitigno chiave di queste zone il Moscato, e Gancia lo chiamò Moscato Champagne. Camillo Gancia è stato quindi il pioniere delle bollicine italiane e la cantina ha attraversato la storia dell’Italia: milioni di persone hanno festeggiato brindando con lo spumante Gancia, simbolo di italianità, sino a quando, nel 2012, la cantina è passata nelle mani dell’imprenditore russo Roustam Tariko. Oggi Gancia è un gigante della produzione del moscato e non solo, con 220 soci conferitori e oltre 20 milioni di bottiglie annue. E proprio da queste straordinarie gallerie, dove affinano i vini spumanti, grazie all’idea di Enzo Gancia nacque l’idea di presentare la candidatura di questo territorio all’Unesco come patrimonio dell’Umanità. Nei primi anni Duemila, il dossier sulle cattedrali sotterranee – nato dall’idea di Enzo Gancia – prese finalmente forma, estendendosi all’intero territorio e comprendendo il paesaggio vitivinicolo: nel 2014 è arrivato il prezioso riconoscimento.
LA CANELLESE – Il Piemonte però non è solo vino. La storia della famiglia Sconfienza ha più di un secolo. Furono Francesco, il bisnonno degli attuali proprietari, e sua moglie Rosa Bertello, a porre le basi di quella che è diventata oggi La Canellese, azienda con sede a Calamadrana che rappresenta uno dei punti di riferimento per la produzione di vermouth italiano. Nel 1890, Francesco Sconfienza fonda La Canellese come fabbrica di botti, ma sua moglie Rosa, appassionata di erbe officinali e piante aromatiche, inizia alcuni anni dopo a sperimentare degli infusi a base di vino ed erbe officinali e aromatiche. Ricette casalinghe, che nel 1920 diedero vita una prima piccola produzione. Fu nel 1947 che Rosa Bertello rivelò ai suo tre figli Alfredo, Edoardo e Mario la ricetta segreta del suo vermouth. E da quel momento La Canellese inizia a distinguersi sul mercato. Oggi in questi laboratori, gestiti da Alfredo, Bruna e Lucia Sconfienza, si producono alcuni tra i migliori Vermouth del Piemonte. E da qui partono per tutto il mondo, soprattutto per gli Stati Uniti. Lucia Sconfienza è innamorata del suo lavoro: ha quell’entusiamo, passione e dedizione che non si possono fingere, che sono veri e coinvolgenti. Le brillano gli occhi quando parla delle quasi novecento formule di liquori aromatici custodite in azienda. Alla base di tutto c’è la certezza di essere sulla strada giusta, di proseguire nel lavoro iniziato dalla famiglia: si parte da una attenta selezione delle piante officinali e dall’uso di vino, spesso ottenuto da vitigni piemontesi per legare il prodotto al territorio. In tutte le fasi produttive si cerca la massima naturalità del prodotto, a partire dall’estrazione delle essenze delle piante officinali: assenzio, salvia, noce verde, mirto, rabarbaro e l’immancabile genziana, ingrediente principale per un vermouth di qualità. Le essenze vengono estratte a temperatura ambiente, o fredda, utilizzando alcol a 35 gradi che viene fatto percolare sulle piante aromatiche spezzettate e, successivamente, fatto riposare per due settimane. Operazione che si ripete più volte per trovare il giusto equilibrio gustativo. Poi, sta all’esperienza trovare la giusta formula da applicare. La Canellese produce circa un milione le bottiglie, di cui il 30% a marchio e il rimanente per conto terzi, e viaggiano in tutto il mondo.
Ristorante Da Violetta
DOVE MANGIARE– Tra una cantina, una visita al centro storico di Canelli e qualche scatto fotografico nelle colline patrimonio Unesco, potreste dedicare un pranzo o una cena al ristorante Da Violetta. Qui vi attende una cuoca di novanta anni, Violetta, che dimostra decisamente meno dalla sua età sia in cucina sia nello spirito. Dalle sue mani escono i piatti della tradizione culinaria piemontese che sono diventati simbolo della cucina italiana: bonet, vitello tonnato, tajarin 40 tuori, raviolini del plin e finanziera, che Violetta prepara gelosamente da sola. In sala c’è il figlio Carlo, che ha la rara dote di sapere accogliere il cliente come se fosse uno di famiglia, con eleganza, guidandolo nella scelta senza mai imporla, valorizzando i piatti che arrivano dalla cucina e sapendo cogliere perfettamente i gusti dell’ospite.
Ristorante Da Violetta
Tra gli antipasti, imperdibili il girello di vitello con salsa tonnata, la carne cruda di razza fassona al coltello, il carciofo con uovo affogato e salsa al prezzemolo (tutti a 9 euro), ma anche i cardi gobbi di Nizza Monferrato, con la classica fonduta di formaggio (10 euro). Tra i primi, ho assaggiato gli agnolotti monferrini (12 euro), che Violetta prepara quotidianamente a mano, così come i tajarin al ragu (10 euro) e gli gnocchi al sugo di salsiccia (10 euro). Tra i secondi, la rarissima e introvabile finanziera (17 euro) realizzata con le interiora e parti povere di bovino, pollame o maiale; poi la faraona farcita con verdure (14 euro) e lo stracotto di vitello al vino Barbera (14 euro). Ovviamente non ho potuto resistere al richiamo del carrello di formaggi piemontesi e ho rinunciato al dolce per un assaggio di tome, robiole ed erborinati (12 euro). Ma il dolce l’ho assaggiato comunque dal piatto del mio compagno e vi assicuro che il bonet di Violetta (7 euro) è il migliore che io abbia mai provato.
LA ROBIOLA DI ROCCAVERANO DOP – Le colline del Monferrato Astigiano e Alessandrino vantano uno dei prodotti Dop dell’agroalimentare italiano: la Robiola di Roccaverano, il primo formaggio caprino ad ottenere la Dop. Matteo Marconi mi ha portato nella sua azienda a Monastero Bormida, dove ho potuto osservare da vicino questo straordinario prodotto. Ho realizzato un video sulle fasi di produzione a partire dalla cosa più importante: la capre. Se volete vederlo e saperne di più potete cliccare qui per leggere il mio articolo sulla robiola di Roccaverano Dop.
DA VEDERE – Sulle strade della Robiola, incontrerete due borghi medioevali molto graziosi. Rocchetta Palafea sulla parte più alta delle colline, e Monastero Bormida, nella vallata, con un castello costruito sui resti di un monastero risalente all’anno Mille e un lungo ponte in pietra, davvero suggestivo al tramonto. Entrambi valgono una piccola sosta per qualche scatto fotografico.
CANTINA TRE SECOLI – Elio Pescarmona, direttore moderno, simpatico e lungimirante, mi ha accolto nella sua cantina a Mombaruzzo. La Tre Secoli è una realtà cooperativa che raggruppa 400 viticoltori che coltivano 1.200 ettari, di cui 145 a uve Brachetto. Punto di riferimento molto importante per il territorio, la cantina, nata nel 1887, produce Barbera, Moscato, Brachetto e altre varietà del territorio come il Cortese, il Grignolino, l’Albarossa, il Gavi, per un totale di 30 etichette. Qui il vino Brachetto è un’istituzione, così come il Moscato. Assieme a Elio, che è anche vice presidente del Consorzio di tutela del Brachetto d’Acqui Docg, ho avuto la fortuna di aprire una bottiglia di Moscato d’Asti datata 1973: avete letto bene, 1973. Ricoperta di polvere, con un tappo che avrebbe potuto non riuscire a conservare correttamente il vino, questa bottiglia non ci ha traditi. Ebbene, anche a più di quaranta anni di distanza, questo vino bianco ci ha regalato grandissime sorprese: con i suoi profumi ancora nitidi di albicocca, miele, pera, una spinta acida ancora vivace. Una prova concreta di quanto il vino sappia evolvere e dare emozioni.
DOVE MANGIARE – Prima di fare visita alla Bersano Vini, non dimenticate di fermarvi nel centro storico di Nizza Monferrato per una pausa nei locali dell’Enoteca regionale, al ristorante Signora in Rosso“, un nome riferito alla Barbera d’Asti che qui a Nizza viene declinata al femminile. Ad attendervi ci sono le specialità territoriali servite in un ambiente rustico-chic, con volte a botte in mattoni rossi e alle pareti tutti i vini delle cantine locali. Da non perdere, tra gli antipasti, il flan di verdure con fonduta di formaggio Raschera (7 euro); il vitello tonnato (8 euro), la carne cruda alla monferrina (9 euro). Tra i primi, immancabili i ravioli del plin alla monferrina e i tagliolini al ragù di salsiccia: entrambi i piatti a 8 euro. I secondo puntano sulle carni: coniglio arrosto con patate (10 euro), la tagliata di fassona (15 euro). Tra i dolci, vi suggerisco di provare la tipica torta alle noci, senza la farina, servita con un zabaione caldo al Moscato d’Asti, abbinata rigorosamente a un calice di Brachetto d’Acqui Docg.
BERSANO VINI – Per il vino Brachetto, la Bersano Vini è sinonimo di storia, perché questo vino, così come lo conosciamo oggi, si deve a una intuizione del suo fondatore Arturo Bersano. L’azienda nacque nel 1935 ma fu negli Anni Cinquanta che Arturo creò per la prima volta una versione spumante dolce, e a bassa gradazione alcolica, da questo vitigno aromatico. L’azienda di Nizza Monferrato oggi è una delle più importanti rappresentanti per questa tipologia. Di proprietà delle famiglie Massimelli e Soave, la Bersano vini conta undici cascine sparse sul territorio, che consentono di diversificare la produzione: dal Barolo di Serralunga d’Alba al Moscato d’Asti e al Nizza Docg.
Al di là della produzione vitivinicola, curata dal responsabile agronomico Filippo Mobrici e dall’enologo Roberto Morosinotto, la Bersano è sinonimo anche di cultura del territorio ed enogastronomica. Arturo Bersano, eclettico, colto, appassionato collezionista, ha lasciato in eredità alla cantina un patrimonio di oggetti che oggi danno vita a ben due musei. Il primo dedicato agli attrezzi agricoli e a tutti quegli oggetti utilizzati che ruotano attorno al vino e all’agricoltura: tini, mortai, carretti, imponenti torchi in legno, bottiglie e brente (contenitori in legno usati per trasportare il vino). L’altro museo è dedicato alle stampe dell’epoca, compresi alcuni documenti ufficiali, fotografie e carteggi che consentono al visitatore di ripercorrere all’indietro gli anni d’oro del vino e dell’enogastronomia italiani, ma anche di conoscere più da vicino lo straordinario eclettismo culturale e il valore umano di Arturo Bersano. La cantina di Nizza Monferrato, sulle rive del fiume Belbo, è anche la sede della Confraternita della Bagna Cauda (noto piatto tradizionale piemontese a base di olio, aglio, acciughe sotto sale e burro), fondata nel 1964 proprio da Arturo Bersano.
DOVE MANGIARE – L’ultimo ristorante che vi consiglio ad Acqui Terme è gestito da un giovanissimo chef, che ha alle spalle ben tre generazioni di cuochi acquesi. Il Nuovo Parisio è un locale storico, in un palazzetto d’epoca del 1700 e offre una delle migliori cucine tradizionali piemontesi e, in particolare, acquesi. Cliccando qui potete leggere la recensione completa di questo locale che ha il suo punto di forze nel perfetto mix tra tradizione ed eleganza.