Chicca ero,anzi, sono io! Mio cugino Giorgio, di qualche anno più grande, non riusciva a dire bene il mio lungo e gutturale nome e quindi da Caterina arrivò a Chicchi e da lì tutti cominciarono a chiamarmi Chicca. I ricordi più vivi della mia infanzia sono legati alla casa di Spoleto e alla campagna Calabrese. E ogni ricordo ha un suo sapore eccellente. Arrivare a Spoleto era sempre un grande trauma, la domenica mattina cominciavo a piangere per l’ansia di dover affrontare le curve della Valnerina. Venivo impacchetata, con asciugamani, buste di plastica, grembiuli, bavaglini, pozioni magiche e mantra anti nausea. Ma arrivati alle curve di Piedipaterno non c’era rimedio che mi potesse salvare dall’inevitabile inondamento intergalattico. Allora chiudevo gli occhi, papà apriva i finestrini e metteva su un’audio cassetta che mi facesse distrarre. Mi ricordo il periodo di Luca Barbarossa, canzoni struggenti che cantavo con l’ingenuità di una bambina innamorata della vita. Arrivati a casa dei Nonni tiravo un sospiro di sollievo, le mie sorelle mi lanciavano dalla macchina per aver innescato una reazione a catena devastante e salivo i gradini della storica casa di via delle Terme più bella del mondo. Una grande casa con porte nascoste e librerie a scomparsa, aveva qualcosa di magico quel posto, forse l’odore di pipa di Nonno Vittorio che arrivava fino al ballatoio del secondo piano con tutta la luce che entrava dalle grandi finestre sembrava di stare in un pian grande pieno di nebbia e io mi divertivo ad immaginare fra uno scalino e l’altro delle lingue di fuoco che cercavano di prendermi, dovevo passare da una poltrona al divano senza mettere piede a terra perché gli occhi di bambina vedevano dei piccoli folletti dispettosi che volevano pizzicarmi le gambe. Mi ricordo la strana e piacevole sensazione del velluto dei divani blu sotto le unghie.
Una grande scala a chiocciola in ferro battuto ti portava direttamente dal piano superiore al grande giardino pieno di querce e noci e gelsomini. Nonna mi faceva sedere su una grande sedia in vimini a cucchiaio in cui una volta salita non riuscivo più a scendere e lì mi dava LA MERENDA.
Nonna Nanda mi viziava con piccoli ma graditissimi bocconi d’amore. La sua merenda era atipica, ma la mia famiglia non è mai stata troppo incline alle formalità. Si presentava con una bella fetta di pane di Strettura rigorosamente senza sale e cotto a legna, bagnata con vino rosso, acqua e zucchero e voi non potete immaginare quale gioia mi potesse dare quella piccola trasgressione. La mangiavo come se fosse una cosa proibita, come se mi facesse diventare grande allo stesso modo dei biscotti di Alice nel paese delle meraviglie e forse dopo la merenda qualche bianconiglio correre nel giardino lo vedevo anche io!
Non erano semplici spuntini o qualcosa per azzittire lo stomaco borbottante. Per fortuna in tutta la mia infanzia e forse anche un po’ dopo mi sono fatta cullare e viziare dai sapori veri del conforto. L’odore di mamma non è mai stato griffato da alcuna famosa fragranza, ma aveva il profumo del biberon, del latte caldo con i biscotti e della vestaglia morbida con il bordino viola con cui mi svegliava la mattina. Ancora oggi sento quell’odore quando mi sento bene. Delle volte papà nei pomeriggi di autunno, quando fa notte così presto che ti ritrovi dal grembiule slacciato dell’uscita di scuola direttamente al pigiama ante-cena, mi portava con lui e la sua piccola e potente 500Fiat blu fiammante a fare le visite ai suoi pazienti nelle frazioni più remote del nostro comune. Piccolissimi Borghi arroccati, aggrappati o adagiati sulle creste dei monti umbri-marchigiani. La macchinina blu sembrava arrampicarsi su quelle stradine impervie e anche con un metro di neve il nostro scarabeo andava scaltro come uno scoiattolo che si arrampica sull’albero. Quando arrivavamo venivamo accolti quasi sempre dalle donne del paese con gonna, zinale e fazzoletto in testa. I più anziani erano davanti al fuoco e l’unico suono che sentivi in quei magici posti era il muggito delle vacche e il dondolare dei campanacci al loro collo. Papà visitava le famiglie al completo dai bambini ai più canuti e mentre io aspettavo giocando con qualche ragazzina della mia età o rincorrendo qualche gatto, si stava già compiendo la magia. Le signore per ringraziare il Dottore preparavamo un cestino di purezza delle nostre terre. Una bella bottiglia di latte di mucca appena munto ancora caldo e una fustella grondante siero di ricotta di pecora, infine le uova delle galline più libere e reazionarie del mondo . Quella era una festa, mi faceva sentire l’odore delle cose genuine, nessuna confezione comoda, colorata , di design, con le ultime ricerche pubblicitarie e di marketing. Una mera bottiglia di plastica, una fustella bianca e la carta di giornale a tenere le uova ferme.
L’uovo. Cosa c’è di più semplice e unico di un uovo?Atomo indispensabile e primitivo della nascita del cibo. Prima particella malleabile e duttile, generatrice di consistenze e forme diverse. Origine del bene, creatrice di creme, flan e tagliatelle. Spesso mamma mi preparava l’uovo sbattuto. Un tuorlo, due cucchiai di zucchero e una forchetta. Sentivo il rumore della forchetta che sbatteva l’uovo mentre stavo facendo i compiti davanti al camino. Lo sbatteva con un vigore tale da farlo diventare una crema morbida e soffice, alla fine aggiungeva o un cucchiaino di caffè o di cacao. La colazione più gustosa che possa esistere, sentivi i granelli di zucchero rompersi sotto i denti, ti si sporcavano le labbra di cacao e con il cucchiaio cercavi di pulire perfettamente la tazza, sembrava passata sotto l’acqua per la cura con cui avevi ripulito tutto. Era buono, era una botta di vita e di dolcezza. L’alternativa all’uovo era sicuramente la ricotta. Papà bruscava una fetta di pane e sopra ci metteva una bella cucchiaiata di ricotta soffice e saporita e a finire il tutto ci spalmava la marmellata di prugne o di more che mamma aveva preparato a fine estate. Ancora oggi che sono grande ormai quasi vecchia vorrei che qualcuno nelle giornate più grigie e piovose , mi preparasse quell’attimo di calore.