Due o tre idee sul futuro del cibo

 

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PROPRIO in questi giorni di festa, placidamente punteggiati da laute libagioni, mi è capitato di partecipare a una garbata, ma animata discussione su quale sia il senso di centinaia di migliaia di persone che scrivono di cucina, ricette e menù, per poi passare ai milioni di persone che guardano le trasmissioni televisive che propongono gare gastronomiche, lezioni con gli chef, Cucine da incubo e ristoranti che sembrano più sgarrupati della scuola napoletana di ‘Io speriamo che me la cavo’.

Ho dimenticato qualcuno? Di sicuro. La stessa domanda, con l’aggiunta di una postilla altrettanto complessa – cioè se tutto questo parlare e scrivere e filmare di cuochi, cucine, ricette e gente che mangia o pensa di mangiare siano destinati a continuare o a perdere di  interesse – mi è stata fatta altrettanto spesso durante le presentazioni del mio libro.

E allora, come adesso, dico che risposte universali, che valgano comunque e sempre, non ne ho.

Ma qualche robusta convinzione sì.

Il cibo e la sua trasformazione in tutte le declinazioni possibili e immaginabili sono sempre stati centrali nell’esistenza umana. Non solo come bisogno primario e irrinunciabile. Tutti gli animali mangiano e tutte le piante si nutrono, pena l’estinzione. Ma gli uomini sono gli unici nell’intero creato che cucinano. Elaborano dal grano al pane, dalla frutta alle confetture, dal luppolo alla birra e dall’uva all’Ornellaia.

Cene, pranzi, colazioni sull’erba o in casa, istantanee di gente sola al bancone di un bar o cornucopie dall’aria invitante sono una costante nell’iconografia e nella letteratura dai tempi di Trimalcione e dei graffiti nelle grotte. Quindi anche l’aspetto puramente rappresentativo mi sembra adeguatamente coperto ed esauriente. In due parole: il cibo in primo o secondo piano c’è sempre stato e sempre ci sarà. Magari anche sullo sfondo, però presente e vivo. Con buona pace di chi lo trova invadente o superfluo nel dibattito quotidiano.

Oggi ne vediamo e consumiamo troppo? Abbiamo sviluppato un’attenzione malsana, eccessiva, da decadenza crepuscolare nei confronti di un atto che è necessario quanto naturale? Difficile rispondere.

Quello che so per certo è che oggi forse più di sempre mangiare è un atto politico. Un’azione che nel come e quanto e dove e perché definisce chi la compie. Coltivare un orto nel giardino di una scuola media di periferia a Salerno non è come farlo sul tetto di un grattacielo a New York, ma entrambi hanno un valore che va molto oltre la ‘resa per ettaro’.

Consumare cibo biologico significa dire alle multinazionali della distruzione ambientale che la coscienza dell’umanità non è ancora morta.

Cucinare secondo la stagionalità sembra anacronistico, ma ha gettato un seme di responsabilità per un consumo più sano del suolo e un utilizzo vero di prodotti locali. T

Gli esempi potrebbero continuare a lungo, ma non cambierebbero la sostanza.

Come dice Alice Waters, mangiare è l’atto politico per eccellenza. Tentare di negarlo è del tutto inutile. Invece riconoscerne l’immenso valore di libertà – cucino ciò che amo – e vincolo – il cibo viene buono se nel prepararlo rispetto la materia prima – condivisione – mangiamo a tavola tutti insieme – e partecipazione – mangiamo cibi di culture diverse – significa dare una bussola a questo presente smarrito, caotico e che a volte appare privo di futuro.

Quindi a tutti quelli che mi chiedono “Ma cosa scrivi a fare di cibo, ricette, cucina e chef invece di scrivere di cose serie?” posso serenamente rispondere che lo faccio perché sono molto impegnata politicamente.

P.S. Ma avete mai visto come sono belli il cavolo nero e le arance insieme alle acciughe del Cantabrico? Dovreste sentire come sono buoni… ”</p

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