Di partite di calcio, canzoni e spaghetti

CARTESIO MI perdonerà, ma oggi mi sento di citarlo a modo mio, dopo una serie di whatsapp particolarmente ispiratori e scatenatisi appena sveglia, quando ho la mente ancora abbastanza libera e in grado di andare oltre le necessità immediate in termini di ragionamento che mi inseguono durante la giornata.

Dunque, Cartesio, vorrei dirti che il tuo cogito ergo sum va bene, ma per me vale anche, magari non in modo così assoluto e universale, sono italiana, latina e mediterranea, ergo, calcio.

Non nel senso che tiro calci, ma nel senso che il calcio in quanto gioco di pallone fra due gruppi (o anche due singoli) che si contendono una palla al fine di buttarla in rete fa parte del mio vissuto e del mio vivere.  Anche se, come nel mio caso, una partita di pallone non l’ho mai giocata,  non frequento gli stadi e non ho l’abbonamento a nessun canale digitale che trasmette campionato, Champions e via elencando. Anzi, per essere sincera, a volte ho anche un moto di stizza per tutto quello che il calcio mediaticamente dominante fa e provoca nel nostro come nella maggior parte dei Paesi europei.  Ma tornando a stamattina, ribadisco la mia appartenenza a “sono latina, ergo calcio”, per i sentimenti potenti che aver assistito a partite di calcio, sentito ragionare di calcio, discusso (nel mio caso assai modestamente) di calcio e letto libri di calcio ha fatto per me.

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La prima volta che ho letteralmente pianto leggendo un articolo di giornale (per essere precisi un articolo de La Stampa) è stato per il funerale dell’allora patron della Sampdoria Paolo Mantovani. Al punto in cui il cronista di cui colpevolmente non ricordo il nome arrivò a descrivere l’effetto della banda di New Orleans espressamente fatta arrivare dagli Usa per suonare “What a friend I have in Jesus”, io avevo già aperto  le cateratte. E ci tengo a precisare che non ho mai tifato Sampdoria.

Quando sento di un certo labaro che garrisce al vento, normalmente mi viene la pelle d’oca e la “Leva calcistica del ‘69” è e rimane una delle mie canzoni preferite. Se c’è qualcuno che non si emoziona quando vede la scena della partita di calcio nel film Oscar  “Mediterraneo”, probabilmente questo succede perché o è morto o è comatoso e quelli che ridono durante la partita di “Tre uomini e una gamba” dovrebbero rivedere “Marrakech Express” (il primo Salvatores era fissato  col calcio!) ed essere d’accordo con me: i migliori comici hanno un fondo bruno di malinconia che sa renderli strepitosi.

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Ma tornando a stamattina, non posso che ribadire il mio pensiero. Il gioco del calcio ci può rendere tutti migliori e più felici finché rimane un gioco che arriva a tutti, che diffonde il suo potere buono anche a chi di calcio non ne capisce niente. Se passa questo confine, diventa un business dalle implicazioni spesso fuori controllo.

Il gioco del calcio buono è come gli spaghetti al pomodoro. Sono universali, piacciono in media, e forse anche più che in media, a tutti e sono quel tipo di pasta che per essere evocativa e non banale deve, nella sua semplicità, essere cucinata con amore e dedizione, ma anche con allegria. E sempre per convivialità. Per stare bene insieme. Una triste spaghettata di mezzanotte proprio non si può fare. Non si può nemmeno sentir dire. Come il calcio che non è più un gioco, ma solo un arido business.

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